Sul cosiddetto «reddito di cittadinanza» – un sussidio di povertà in cambio di lavoro volontario gratuito obbligatorio e mobilità forzata su tutto il territorio nazionale – i renziani di Italia Viva non hanno lanciato una crociata, ma hanno acceso un nuovo fuoco fatuo. Lo ha chiarito ieri la ministra dell’agricoltura Teresa Bellanova secondo la quale «non stiamo ponendo un aut aut a Conte, non abbiamo detto di abolirlo per principio, abbiamo solo detto di valutare cosa sta comportando l’impegno di miliardi di euro in termini di ricaduta occupazionale». È un messaggio ai Cinque Stelle che ieri hanno rimesso in piedi le barricate: «È fuori dalla realtà e non capisce in che direzione va il mondo chi attacca il reddito» ha detto la ministra della P.A. Fabiana Dadone. Quello di ieri fatto da Bellanova è un chiarimento su uno dei furbi penultimatum posti da Renzi in vista dell’incontro di mercoledì con Conte: «Eliminiamo o modifichiamo il reddito di cittadinanza che non funziona» ha detto. Tra «eliminare» e «modificare» in effetti esiste un oceano. Bellanova propende per la modifica. Nel linguaggio macchinoso di una maggioranza che ha nei fatti accettato l’irreversibilità del «reddito» questo significa «fare un tagliando». L’espressione è ricorrente nel governo Conte 2: può essere usata sia per la revisione di una macchina, sia di una politica che riguarda oltre due milioni di persone. Di solito non ci si arriva mai. Sarà forse prestata maggiore attenzione alla confusa situazione dell’agenzia delle politiche attive del lavoro (Anpal) guidata da Mimmo Parisi. Tutti vorranno capire perché il «reddito di cittadinanza» – che tale non è – non ha prodotto i promessi «posti di lavoro». La stima di 39.760 assunti fatta da Parisi è indeterminata. Non è possibile dimostrare con certezza che queste assunzioni siano state prodotte dal sistema del «reddito» perché, banalmente, il fantascientifico sistema di incrocio della domanda e offerta di lavoro tramite piattaforme digitali e coordinamento tra molteplici istituzioni non è ancora partito. Se un beneficiario del «reddito» ha trovato un lavoro, lo ha fatto usando i suoi canali.

È dunque possibile che il «tagliando» che il governo farà al «reddito» consisterà nel sollecitare la partenza di un progetto di controllo sociale a sostegno delle imprese mediante piattaforme digitali. Parisi sostiene che si partirà dopo luglio. Non è chiaro se prima o dopo Ferragosto. Sempre che poi questo «reddito» parta, e vada a regime, non è affatto chiaro se funzionerà.

Il presidente dell’Inps Pasquale Tridico, teorico di questa misura, è in difficoltà: da settimane precisa che, in mancanza di crescita e investimenti, questa «politica attiva del lavoro» (che «reddito di cittadinanza» non è, né sarà) non funzionerà mai. E del resto, ha aggiunto, è una misura contro la povertà nei cui obiettivi non rientra l’aumento dell’occupazione. Sussidio vincolato a un lavoro o reddito incondizionato? È questo l’equivoco creato dalla misura attuale, come dal precedente «reddito di inclusione» (ReI) difeso anche dai renziani e assorbito dal nuovo sistema, anche se nessuno sembra volerlo capire. L’equivoco è il frutto di una truffa semantica operata dai Cinque Stelle da cui nessuno vuole uscire. Non interessa a chi dalla destra classista attacca il governo perché «regala» soldi ai poveri. E non sembra nemmeno interessare alla sinistra che potrebbe rivendicare il diritto all’esistenza dentro e contro il mercato capitalistico a partire da un reddito di base incondizionato. Potrebbe trarre da questo una ragione d’esistenza. E invece non lo fa. Non a caso.
L’idea ribadita ieri da Tridico per cui misure come il «reddito» esistono «da 20 anni» è parzialmente vera. Parzialmente perché in nessun paese esiste una vera politica di «reddito di cittadinanza». Vera perché esistono schemi costrittivi – anche se quello italiano è sulla carta particolarmente efferato con i poveri – che hanno creato una nuova realtà: la «trappola della precarietà». Chi entra in questi sistemi non esce mai più. Diventa dipendente dal sussidio e, per di più, sarà obbligato a svolgere prestazioni volontarie per i comuni e il terzo settore fino a sedici ore a settimana, pena la perdita del sussidio. Si chiamano progetti di pubblica utilità (Puc), partiranno a breve, sono la nuova frontiera dello sfruttamento e serviranno a chi nel governo vuole dimostrare che il «reddito» produce occupazione.