Entro oggi, i percettori del reddito di cittadinanza dovranno rinnovare il certificato Isee (l’indicatore della situazione economica delle famiglie), pena la perdita del sussidio. Inizia così il secondo anno di attuazione di questa misura voluta dai 5 Stelle.

E che continua a subire attacchi sia da destra che da sinistra. Forse perché non è servita ad «abolire la povertà» o a ridurla significativamente? Fosse così significherebbe che la quasi totalità della politica italiana avrebbe sposato, finalmente, l’idea che nel nostro Paese le vere emergenze si chiamano disuguaglianza e povertà.

NO, IL MOTIVO è che non ha creato posti di lavoro e che ci sono troppi furbetti tra i suoi beneficiari. Quindi, sarebbe meglio abolirlo e dare i soldi alle imprese sotto forma di incentivi fiscali, perché «solo le imprese creano il lavoro vero».

Per chi avesse ancora dubbi sulla subalternità ideologica del ceto politico italiano alle teorie economiche dominanti, tale approccio al problema del lavoro e della distribuzione del reddito dovrebbe contribuire definitivamente a fugarli.

DA UN LATO si ripropone lo schema neoclassico incentrato sulla centralità dell’impresa privata, nel quale il lavoro entra come merce tra le altre merci, escludendo un ruolo attivo e diretto dello Stato nel determinare sia i livelli occupazionali che quelli di reddito; dall’altro si colpevolizza la condizione del «sussidiato», in quanto fonte di parassitismo sociale e di alterazione del mercato del lavoro.

Tesi suffragate anche nell’ultimo rapporto del Fondo monetario internazionale (Fmi) sull’Italia, nel quale c’è scritto a chiare lettere che gli assegni del reddito di cittadinanza «sono troppo alti» e «disincentivano al lavoro», determinando «condizioni di dipendenza assistenzialistica». Parliamo di sussidi che nel 70% dei casi non arrivano a 400 euro al mese.

Archiviato il «secolo breve», siamo precipitati direttamente nell’Ottocento. Ed oltre. Lo Stato deve solo assecondare ed incentivare l’iniziativa d’impresa, l’offerta crea da sé la domanda, va più avanti chi ha più talento, i poveri sono tali anche per i loro comportamenti, un certo livello di povertà e di disoccupazione sono «naturali», come dice la curva della «produttività marginale» (si può mai andare contro la matematica?).

CHIUSI in un cassetto Marx e Keynes, è come se fossero tornati dall’oltretomba, accanto ai cantori dell’immutabilità dell’esistente, autori come Herbert Spencer, col suo darwinismo sociale, e Vilfredo Pareto, per il quale erano pochi quelli che meritavano la ricchezza «a paragone della moltitudine che meritava la povertà» e pochissimi quelli che meritavano la grande ricchezza.

Sembra uno spaccato descritto oggi da Oxfam.

A NESSUNO viene in mente che il problema del reddito di cittadinanza risiede proprio nel suo collegamento alle politiche attive del lavoro, nell’insufficienza delle risorse stanziate e, soprattutto, nella determinazione su base familiare delle soglie di accesso. Se di reddito «di cittadinanza» si tratta, non sono ammesse condizionalità e non è accettabile che ad essere esclusi o penalizzati, paradossalmente, siano proprio i membri di famiglie povere e numerose, per via del cumulo del magro reddito di ciascuno.

LE ATTUALI condizioni economiche e di vita nei Paesi avanzati richiederebbero un trasferimento monetario universale «di base» a tutti i cittadini, con o senza reddito, perfino a quelli più agiati, che alla fine lo sconterebbero attraverso il pagamento di tasse più alte allo Stato.

Una dote che ogni cittadino dovrebbe ricevere per il solo fatto di essere venuto al mondo. In questo caso, solo in questo caso, si potrebbe parlare di «reddito di cittadinanza», e non di una misura di inquadramento – e di marchiatura a fuoco – dei derelitti nell’ordine sociale precostituito.

CHE POI, combattere la povertà e le disuguaglianze farebbe bene anche all’economia nel suo insieme. Perché la propensione al consumo di chi ha poco è sempre più elevata di quella di chi ha molto, decresce al crescere del reddito.

Le famiglie «normali» tendono a spendere quasi tutto il loro reddito per i beni necessari alla sussistenza dei loro membri, mentre i ricchi, che sono una minoranza, una volta soddisfatti i bisogni primari e quelli che producono «piacere e felicita», per dirla con Jeremy Bentham, tendono a destinare il resto delle entrate – la gran parte – al risparmio o ad attività alternative, tra cui la speculazione. A ben vedere, anche la «stagnazione secolare» è figlia della povertà.