Anche l’Ocse è intervenuto ieri nella contesa pre-elettorale in vista delle amministrative di inizio ottobre sul cosiddetto «reddito di cittadinanza» che divide i partiti in abolizionisti e «miglioristi». Nel rapporto 2021 l’organizzazione parigina ha dato uno spunto ulteriore per il restyling della legge pluriannunciato da Draghi, dal ministro del lavoro Orlando o da Conte che difende l’ultimo totem dei Cinque Stelle. Si tratterebbe di «ridurlo e assottigliarlo per incoraggiare i beneficiari a cercare lavoro nell’economia formale» ma anche di «introdurre un sussidio per i lavoratori a basso reddito». La prima soluzione è un classico nel governo dei poveri chiamato «Workfare»: si tagliano i sussidi per costringere i beneficiari a cercare un lavoro. Questo lavoro non c’è e, se c’è, è precario e finisce subito. A chi farà domanda per un altro sussidio sarà addebitata la responsabilità della sua condizione e sarà attaccato perché «sta sul divano». La seconda indicazione dell’Ocse è un «reddito minimo» che nessuna forza politica istituirà. Se lo facessero anche i lavoratori poveri sarebbero attaccati perché percepirebbero un sussidio. In più dovranno difendersi da un’altra accusa: anche se lavori pagato una miseria non puoi avere soldi dallo Stato. Da questi circoli viziosi è impossibile uscire se non con una critica radicale delle politiche sociali occupazionali.

FA DISCUTERE la metafora del «reddito di cittadinanza» come «metadone di Stato» creata da Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia). La metafora paragona i poveri agli eroinomani e ha creato una giusta indignazione tra chi lavora nella cura delle dipendenze. «È una sciocchezza – ha detto all’AdnKronos Massimo Barra, fondatore di Fondazione Villa Maraini della Croce Rossa Italiana che si occupa di questo problema sociale – Siamo su slogan e dogmi offensivi verso 90 mila persone che sopravvivono grazie al metadone nel nostro paese. È la più importante terapia a disposizione per gli eroinomani, sputarci sopra significa sputare su chi la fa. Nulla di più offensivo».

MESSA ALLE STRETTE ieri Meloni ha cambiato registro. «Lo sviluppo e il lavoro sono i mezzi per liberare la gente dalla povertà, non il mantenimento con la paghetta di Stato per rendere i cittadini dipendenti dalla politica come vogliono fare i 5Stelle e la sinistra». Non è un ragionamento diverso da quello fatto da altri: per uscire dalla povertà servono investimenti e lavoro. Ma va? Il problema nasce quando gli investimenti producono lavoro a basso tasso di innovazione e senza qualità, mentre il lavoro resta comunque poco, precario e non garantisce le tutele sociali fondamentali: un reddito di base, un salario minimo, la disoccupazione o la maternità. È una situazione ricorrente in Italia dove la maggior parte dei posti prodotti nel lavoro dipendente sono precari e di breve durata.

IL RAGIONAMENTO si morde la coda: dalla povertà riesce con il lavoro, ma facendo un lavoro povero si resta poveri. Non considerare questa realtà rende simili sia coloro che oggi difendono il «reddito di cittadinanza» come sussidio utile per un ritorno improbabile sul mercato del lavoro sia coloro che dicono di volerlo abolire (Renzi con il suo referendum farlocco, Salvini che vuole presentare un «emendamento») per dare i soldi alle imprese che creerebbero il lavoro. Lo stesso lavoro che rende poveri.

È TORNATO D’ATTUALITÀ un altro concetto, coniato a «sinistra» e poi evocato da Renzi: il «lavoro di cittadinanza». Lo ha pronunciato ieri il ministro leghista dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti secondo il quale bisogna «trasformare il reddito di cittadinanza in lavoro di cittadinanza». Ora, si tratta di capire se questo significa obbligare i poveri ai lavori forzati puri e semplici senza nemmeno il paravento attuale dei «Progetti utili alla collettività» (Puc) già previsti dalla legge. In questo caso il lavoro è obbligatorio fino a 16 ore a settimana, non prevede una retribuzione ed è giustificato con un sussidio inferiore ai 580 euro a famiglia, non a individuo. Nell’altra ipotesi si tratterebbe di lavoro schiavistico in nome della «cittadinanza».

CON OGNI PROBABILITÀ il restyling promesso dal governo manterrà il lavoro gratuito nella prima ipotesi e cercherà di dare una parvenza di efficienza, meramente statistica, alle «politiche attive del lavoro» che confluiranno nella riforma degli ammortizzatori sociali inserita nella legge di bilancio. A quel punto, dopo la sua approvazione, la guerriglia classista dei partiti conoscerà una tregua, ma ricomincerà presto. La violenza politica del dibattito serve a infliggere uno stigma ai poveri, precari e disoccupati mantenendoli nel silenzio e nella vergogna.