Prima di andare in vacanza lasciando promesse agli operai insorti e licenziati dalla Gkn («Siamo determinati a dare risposte a problemi gravi»), e buoni propositi per la soluzione alla mattanza dei lavoratori uccisi dal loro lavoro («La situazione della sicurezza è inaccettabile, occorre fare di più»), ieri il presidente del Consiglio Mario Draghi ha dato una stoccata a Renzi che intende fare un referendum per abolire il cosiddetto «reddito di cittadinanza» ma solo nel 2022 per tenerlo effettivamente l’anno successivo, se riuscirà a raccogliere le firme. «È troppo presto per dire se verrà riformato ma il concetto alla base del reddito di cittadinanza io lo condivido in pieno» ha detto Draghi in un saluto ai giornalisti a palazzo Chigi.

QUESTE PAROLE hanno provocato le proteste dei renziani «Rispettiamo la sua opinione – ha detto Ettore Rosato, presidente di Italia viva – ma per noi il reddito di cittadinanza non funziona, i navigator sono un fallimento, non combatte seriamente la povertà e quindi faremo tutto ciò che potremo per cambiare questa norma sbagliata, votata da Lega e Cinque Stelle e appoggiata da Pd e Leu». «Oltre a essere in continuità con l’esecutivo Conte lascia intuire che il governo non ha altre alternative per creare nuova ricchezza e occupazione» ha aggiunto Fabio Rampelli (Fratelli d’Italia). Salvini, che ha criticato la misura da lui approvata, ieri non ha parlato.

LA TESI dell’ex presidente della Banca Centrale Europea non è nuova. È possibile trovarla, ad esempio, in quell’articolo pubblicato dal Financial Times il 25 marzo 2020, nelle settimane in cui la pandemia era stata ufficializzata e i governi iniziavano a confinare la popolazione e congelare l’economia. In quel testo, una dichiarazione programmatica ribadita quando è stato nominato a palazzo Chigi, Draghi scrisse che «la priorità non deve essere solo fornire un reddito di base a coloro che perdono il lavoro. Dobbiamo proteggere le persone dal perdere il lavoro, in primo luogo».

VA EVIDENZIATO il fatto che il testo inglese parlava di «reddito di base» («basic income») e non di quel sussidio di ultima istanza vincolato all’obbligo di fare fino a 16 ore a settimana di lavori gratuiti e spostarsi anche su tutto il territorio nazionale in cerca di lavoro chiamato impropriamente «reddito di cittadinanza» dalla Lega e dai Cinque Stelle nel primo governo Conte. Per »reddito di base» si intende una misura incondizionata, indipendente dall’obbligo del lavoro e della formazione, a tutela del diritto dell’esistenza, principalmente di coloro che sono sotto la soglia di povertà sia assoluta che relativa. Il «reddito di cittadinanza» è diverso dalla truffa semantica dei Cinque Stelle, ma una sua torsione razzista può condurre all’esclusione degli stranieri residenti, soprattutto gli extracomunitari. Ed è infatti quello che hanno fatto i pentaleghisti vietando questo sussidio a quelli che risiedono in Italia da meno di 10 anni.

DRAGHI si è in realtà mostrato assai prudente. Da mesi circola l’intenzione di fare un restyling al «reddito di cittadinanza» limitato alla scala di equivalenza che danneggia le famiglie più numerose, accorgimenti sul ruolo degli enti locali e probabilmente modifiche sull’Indicatore Isee per permettere l’inclusione di chi ha perso reddito e lavoro a causa della pandemia. Variazioni minime che potrebbero però estendere il «reddito» almeno a una parte di quel milione di poveri assoluti in più aumentati negli ultimi dodici mesi.

LA «RIFORMA» a cui si sta pensando riguarda l’altra gamba del sistema di cui il «reddito di cittadinanza» è solo il primo passo. Sono le «politiche attive del lavoro». Ieri il ministro del lavoro Andrea Orlando ha esposto le linee guida alle regioni, co-titolari con lo Stato delle politiche occupazionali. La riforma arriverà «entro settembre», rispecchierà quanto chiesto dalla Commissione Europea nel «Recovery», di cui queste politiche sono uno dei pilastri, già recepite nel piano di «ripresa e resilienza» e rientrerà nella riforma degli ammortizzatori sociali che obbligherà anche i cassintegrati, i percettori di Naspi e le partite Iva che fanno richiesta del bonus «Iscro» a fare Progetti Utili alla Collettività (Puc) e partecipare al business della formazione obbligatoria.

SALVO modifiche profonde della legge del 2018 sarebbe il completamento del progetto dei Cinque Stelle e il primo passo verso la realizzazione di un Workfare neoliberale tra i più spietati d’Europa.