Tra le innumerevoli suggestioni di Sguardi AltrovE, festival milanese concluso domenica scorsa e profondamente ancorato alle declinazioni e ai linguaggi artistici al femminile, spiccano, per sensibilità e attenzione ai mutanti d’infanzia e adolescenza, le due vincitrici della sezione lungometraggi e della sezione corti. Il ReCuiem di Valentina Carnelutti, miglior cortometraggio, racconta i rituali del quotidiano di una mamma e dei suoi due bambini – vestirsi, giocare, dipingendo un universo affettuoso che s’addormenta per sempre il mattino dopo, con l’insolito risveglio dei piccoli alle prese con una mamma senza vita.

Il gioco ricomincia, con la macchina da presa che li segue amorosamente ad altezza bambino, ma ben presto la consapevolezza della morte prende il sopravvento in un tempo sospeso e onirico dove i bambini cospargono il corpo disteso e dolcemente abbandonato di fiori, quasi un ornamento funebre giocoso e involontario, prima dell’arrivo del suo uomo, il cantante Francesco Tricarico al suo debutto attoriale, che la bacia per l’ultima volta – un amore che si conclude in uno struggente primissimo piano – e della nonna, alla quale è «destinato» un lungo piano finale di pianto, silenzioso.

La regista carica di sottile ambiguità le immagini, filmando un tempo sospeso, fra movimenti di bambini inconsapevoli e la fissità di un corpo oramai rigido ma ancora aggrappato alla dolcezza materna, che si imprime anche nei titoli di coda, dedicati allo sguardo sperduto del figlio maggiore verso un cielo azzurro di speranze. Meritato anche il premio al miglior lungometraggio The Summer of the Flying Fish della cilena Marcela Said che racconta due comunità in un paesaggio oscuro, misterioso, quasi barbaro – il Cile «bianco» di oggi e l’ancestrale comunità Mapuche – che convivono nella post-colonizzazione moderna, fra ricche spa e miseri interni, tra rivolte solo intraviste e viaggi a New York.

Ad attraversare i due mondi lo sguardo sempre nomade di Manena, figlia adolescente di un ricco proprietario terriero, in vacanza estiva nei possedimenti paterni in riva a un lago. Fra arsure, chiacchierate familiari attorno al fuoco e bagni metafisici, la giovane a poco a poco prende consapevolezza dei soprusi paterni nei confronti di una comunità disprezzata e in via estinzione fino al tragico e sospeso finale di acquea «metamorfosi». La regista cilena, dopo anni dedicati al documentario, conserva uno sguardo su un reale cupo, mosso dal denaro e dal disprezzo per l’altro ma anche da gesti d’amore fatti di danze e passioni fugaci, oscillanti fra un mondo e l’altro.

La tensione viene amplificata da un paesaggio solo apparentemente lussureggiante, che di fatto si rivela terra fangosa dove si nascondono carogne, metafora di una coabitazione impossibile, e tensioni razziali di difficile risoluzione. Marcela Said sposa lo sguardo della giovane Manena, il suo vagare solitario nella foresta minacciosa, l’oscillare tra un ragazzo bianco e un amore meticcio, i movimenti fra la famiglia e l’altrove. Le nebbie avvolgono i suoi giorni e le notti in una spirale che sembra trovare nel finale un momento di quiete nel distendersi sotto la superficie dell’acqua, il suo farsi carpa, pesce disprezzato dal padre perché simbolo della comunità Mapuche.