La sincronia è perfetta, forse troppo per essere casuale. Mentre la presidente von der Leyen, nel primo discorso sullo stato della Ue dopo la tempesta Covid, stende il suo ombrello protettivo su Conte, Roma mette in bella copia le linee guida del Recovery Plan italiano e le spedisce alle Camere. Corredate da un letterina in cui il premier assicura che, se il Parlamento «lo riterrà opportuno», il governo è pronto a riferire, confrontarsi, «recepire valutazioni e indirizzi», sempre «nello spirito di massima collaborazione e sinergia».

La benedizione di Ursula passa per due annunci precisi. Il primo è che «col premier Conte e con la presidenza italiana del G20 organizzeremo, in Italia, un vertice sulla sanità»: un attestato di stima e un riconoscimento preziosi. Il secondo è anche più importante: «Aboliremo il regolamento di Dublino». Sarebbe un passaggio fondamentale per risolvere l’eterna crisi dell’immigrazione ma anche per spuntare le unghie a chi, come Salvini, su quella crisi si è ingrassato.

Il documento del governo sulle linee guida, di fatto una serie di slide, non si discosta dagli annunci della vigilia ed è dunque esposto alle stesse critiche. Ottimo e abbondante, tale da spaziare su tutti i punti critici che tengono l’Italia al palo e lo rendono un Paese allo stesso tempo molto ingiusto e del tutto inefficiente. Senza però mai scostarsi dai titoli. Senza neppure accennare all’implementazione, alla trasformazione degli orizzonti delineati in percorsi concreti grazie ai quali raggiungere quei traguardi. Potrebbe essere il segno che il governo stavolta intende davvero mettere mano alle misure reali «in sinergia» con il Parlamento.

Le esperienze precedenti autorizzano poche speranze ma non si sa mai.
Gli obiettivi erano già noti e sono ambiziosi. Raddoppio del Pil dallo 0,8% all’1,6%. Beppe Grillo ha appena definito la sfida «una cosa folle»: il Movimento applaude ma senza alcuna intenzione di seguirlo. Veleggia ormai su tutt’altre rotte. Impennata degli investimenti, sino al 3%, e delle spese per la ricerca, dall’attuale 1,3% al 2,1%. Aumento dell’occupazione di 10 punti, sino al 73,2%, media europea. Dovrebbe trattarsi di occupazione buona, non di precariato semischiavista, duettano il governo di Roma e la commissione. La presidente raccomanda l’adozione del salario minimo. Il governo Conte ha già risposto. Il salario minimo «per tutelare le categorie più deboli, fissato a livelli competitivi» figura in bella mostra. Con una certa ambiguità: coniugare la difesa dei deboli e quella dei livelli competitivi non sarà facile.

Le «missioni» italiane sono quelle già enunciate e vergate sotto dettatura di Bruxelles: digitalizzazione, rivoluzione verde, infrastrutture, istruzione, equità e salute. Più interessante, nel depliant fornito alle Camere, la sezione detta «Politiche di supporto». Sono né più né meno che le riforme proclamate necessarie da decenni. Sono anche la porta, al momento strettissima, dalla quale si deve passare per realizzare le sei «missioni». Riforma degli investimenti pubblici, da portarsi «ampiamente al di sopra del 3% del Pil», della Pa, della Ricerca, del Fisco, della Giustizia, perché «il quadro legale deve diventare fattore di competitività anziché ostacolo», del Lavoro.

Per le ultime tre voci è indicata anche la tempistica. La legge delega sul fisco dovrebbe essere presentata quest’anno e i decreti attuativi entro il 2021. La novità è che le trattative con la commissione per aggirare il divieto di usare il Recovery per tagliare le tasse sono a buon punto. La riforma della Giustizia dovrebbe diventare legge delega entro il prossimo aprile, come pure la riforma del Lavoro, ed essere poi attuata per la fine del 2022 mentre per il Lavoro tutto dovrebbe concludersi l’anno prossimo.

Se si tratti di ipotesi realistiche o di chimere lo si scoprirà presto. Di certo l’impianto, nella sua generalità enciclopedica, non disegna, o non disegna ancora, un’idea di Paese e di modello di sviluppo tali da supportare nel concreto le alte ambizioni e le ottime intenzioni. Lo segnalano in un documento numerosi parlamentari e amministratori ecologisti e di sinistra, tra i quali l’ex ministro Fioramonti, la capogruppo di LeU al Senato De Petris, Nicola Fratoianni, Massimiliano Smeriglio. Lamentano la nulla partecipazione delle realtà sociali ai lavori. Indicano la possibilità che il Recovery si trasformi «in una collezione di progetti e piccole azioni». L’eterno rischio di questo governo: quello di non riuscire a scegliere.