Sono passati quasi cinquant’anni da quando i ventenni Leo e Perla debuttavano con la loro «faticosa» messinscena dell’Amleto che proiettava l’inquieto personaggio di William Shakespeare in mezzo ai riverberi della contemporaneità. Non può averne memoria, è troppo giovane Giuseppe Provinzano. Ma insomma siamo sempre da quelle parti lì, alle prese con le stesse difficoltà, sembra di poter dire, davanti a questo To play or to die scritto e diretto dall’attore palermitano che ne è anche interprete insieme a Chiara Muscato (lo spettacolo, visto ai Teatri di vita, è prodotto dal CSS di Udine insieme alla crew di Provinzano, Babel, e piace questa commistione geografica fra nord e sud estremi). Il teatro che non si può fare, e tuttavia impone la sua necessità. L’isolamento dell’artista, il suo posizionamento nella società contemporanea…

Provinzano l’avevamo incontrato anni fa in una bella serata palermitana, al teatro Garibaldi aperto alle voci di piazza Magione. Lo spettacolo si intitolava Sutta scupa e faceva pendant a un lavoro di Franco Scaldati in un duplice corpo a corpo con la lingua siciliana, la sua violenza e i suoi silenzi. Non stupisce ritrovarlo più solido e maturo, mentre da solo cincischia davanti al pubblico con i suoi dubbi d’artista – lei silenziosa lo ascolta da un lato. Recitare o morire, questo è l’amletico dilemma, oggi. E ci si potrebbe anche sentire un’eco del Testori della trilogia degli «scarrozzanti». Sono rimasti soltanto loro due, gli altri attori si sono licenziati e bisogna arrangiarsi con quel che c’è, una sedia e un filo teso su cui stendere i panni di un improvvisato siparietto brechtiano, un teatrino da burattini trovato chissà dove, i costumi rimediati che pendono in mezzo ai neon bianchi nell’attrezzeria a vista che funge anche da fondale. Anche le parole sembrano fuggire via. Il testo si è perduto. Chi è là? Non ricordo…

E allora via con God save the Queen, però in una versione assai poco regale, tirando sul capo il derisorio simulacro di una corona. Via con quella lunga schiera di personaggi, puntigliosamente elencati, cambiando un soprabito o una felpa per passare dall’uno all’altro. In una crasi narrativa ironicamente rivendicata, una mescolanza che contagia la forma espressiva, mentre le musiche saltano da un decennio all’altro, fra Gino Latilla e Debbie Davis e Rino Gaetano. Un Amleto di più dice l’attore, memore di Carmelo Bene. Un Amleto senza, bisognerebbe dire piuttosto. Senza Amleto e Ofelia, intanto. Perché a dispetto di essere rimasti loro due soltanto, o forse proprio per questo, i nostri sono attratti soprattutto dai margini della tragedia, dalle vicende dei personaggi secondari appunto. La sex addiction dell’usurpatore re Claudio, la volgarità dei cortigiani Rosenkrantz e Guildenstern, le ambigue attenzioni di Polonio per la figlia. Altro che porgere uno specchio alla natura. Ci si può illudere ancora che una risata li seppellirà, davanti ai nasi rossi dei becchini, ma non si sfugge al senso di impotenza che si coniuga alla manifesta volontà di resistere allo spirito dei tempi, o più concretamente alle politiche culturali di un potere reso in qualche momento fin troppo trasparente.

E allora no, non siamo sempre lì, e non ci vuole molto a rendersene conto che i conti non tornano in quella facile equazione temporale. O meglio: che non ci si può rifugiare nella storia, nemmeno quella teatrale. Non si sfugge al proprio tempo, lo insegnava proprio Leo. To play or to die è spettacolo per nulla ingenuo. Non bisogna farsi ingannare dalla sua apparente approssimazione, dal tono informale della recitazione, dalla slabbratura drammaturgica (un po’ come per il Teatro Sotterraneo di Daniele Villa, ma è chiaro che non si vuole suggerire parentele inesistenti, è solo per farsi capire). E che brava che è Chiara Muscato, nel passare da un registro all’altro. Dietro il travestimento scespiriano, un poco alla volta compare Heiner Müller, la sua implacabile Hamletmaschine. Fino a diventare una citazione esplicita nel finale, quando gli attori regalano agli spettatori le pagine accartocciate del loro esodo, lei che non è più Ofelia, lui che si è stancato di essere Amleto. Anche fuori dal teatro non resta che aspettare Fortebreccio.