Un «poeta mistico in qualche misura Rebora fu sempre, fin da quando errava nella selva oscura»: così scriveva Eugenio Montale nel necrologio per Clemente Rebora (1885-1957), comparso sul Corriere della Sera. La dantesca «selva oscura», per quanto proverbiale, non sembra evocata qui a caso; può alludere infatti alla profonda adesione di Rebora alla poesia di Dante e ai suoi valori. Valori e significati che l’autore dei Frammenti lirici non si limitò a ricevere nei propri scritti, ma scelse come esempio, morale prima ancora che stilistico. Del resto, come ha scritto Gianfranco Contini, in Rebora la «posizione morale si complica d’una posizione stilistica» (Due poeti vociani, 1937).
Al dantismo reboriano è dedicato l’ultimo libro di Roberto Cicala, che si segnala come uno dei contributi più importanti nella bibliografia sull’autore: Da eterna poesia Un poeta sulle orme di Dante: Clemente Rebora (il Mulino «Percorsi. Linguistica e critica letteraria», pp. 426, euro 25,00). Introdotto da una presentazione di Alberto Casadei e arricchito da un’appendice di Tracce dantesche in testi e documenti, il volume è frutto di oltre un trentennio di letture e di studi, grazie ai quali Cicala ci consegna oggi, nell’anno del settimo centenario dantesco, un’immagine rinnovata di Rebora e un capitolo tra i più interessanti sulla fortuna novecentesca del poeta della Commedia. Non che Rebora sia un autore ‘da riscoprire’: la sua posizione nel canone lirico primonovecentesco è sicura, la qualità dei contributi critici è alta (anche grazie ai lavori dello stesso Cicala e al «Meridiano» uscito nel 2015, a cura di Adele Dei e Paolo Maccari). Ma occorreva riconsiderare la frattura biografica e artistica rappresentata dalla conversione e dai voti religiosi pronunciati da Rebora in età matura, come esito di un lungo travaglio tanto fisico quanto spirituale. Era necessario, cioè, inquadrare nel medesimo cono di luce il sergente Rebora, che a trent’anni fu in prima linea sui fronti della Grande guerra (e scrisse versi come quelli di Viatico, tali da far apparire Ungaretti – come ha scritto con eccesso di enfasi e parzialità Giovanni Pozzi – «un letterato compiaciuto»); e il padre Rebora, che consacrò la seconda metà della sua vita agli esercizi spirituali.
La prospettiva dantesca consente proprio di cogliere l’unità profonda di quei due profili, la coerenza tra le due figure: il soldato e il religioso, il poeta e l’uomo di fede. Il «filo rosso dantesco – osserva Cicala nella premessa – non è spezzato in due tra prima e dopo la conversione, come non si può dividere sommariamente a metà la sua produzione, sebbene alcuni critici l’abbiano pensato privilegiando l’espressionismo giovanile e trascurando concentrazione linguistica e spirituale verso l’abisso nella tarda maturità». Non è il caso di parlare di un Rebora ‘senza conversione’; al contrario, si può pensare alla conversione come a una tensione permanente, avvertita ed espressa da Rebora fin dall’inizio del suo percorso intellettuale. Ecco allora che l’intento e l’importanza della ricerca di Cicala si precisano anche rispetto agli orientamenti che a lungo hanno prevalso nella critica su Rebora e sui vociani. (Anzi, in fondo la stessa categoria di ‘vociani’, pur rilevante sul piano storiografico, si basa su un partito preso stilistico-espressivo). Se, come ho detto, Rebora non è poeta da riscoprire, è però un autore di cui va dip

into un ritratto ‘a figura intera’. Quel ritratto ce lo dà ora Da eterna poesia, che fin dalla sua articolazione tende a mettere in evidenza la vita e l’opera dell’autore all’insegna di Dante: la parte prima è infatti dedicata a La drammatica ricerca di una «Vita nuova», la seconda illustra Un’opera novecentesca nella luce di Dante.
«La discussione critica sul dantismo di Rebora», ha scritto Fortini nel saggio sui Frammenti lirici per la Letteratura italiana Einaudi (citando a sua volta uno studio di Giacomo Magrini), «tende ad arrestarsi ad una serie di rinvii di modi lessicali o di ritmi o di vere e proprie citazioni, dove invece sarebbe necessario andare oltre l’attenzione alle convergenze». Nel saggio di Cicala, in cui pure non si trascurano i rinvii di natura intertestuale – il capitolo IV contiene anzi un’ampia e fine analisi della memoria poetica – si va appunto al di là di queste convergenze. Si rintracciano, cioè, anche ‘fonti’ di altro tipo, non testuale ma morale ed esistenziale. Perciò, la vera convergenza che il libro vuole mettere in luce non riguarda tanto le opere, ma l’esperienza che le include e le fa rivivere oltre i confini del testo. La bipartizione del libro (in verità è una tripartizione, perché contempla anche le tracce documentali a cui si accennava) non vuole suggerire una divisione ma una corrispondenza tra vita e opere dell’autore.
Lo stigma dantesco si manifesta fin dal periodo della formazione, come testimoniano le lettere composte tra i venti e i trent’anni: «Dante ha capito tutto», scrive Rebora rivolgendosi all’amico Antonio Banfi nel novembre del 1913, poco dopo l’uscita dei Frammenti lirici. Attraverso il confronto con Mazzini, «spesso assurto – osserva Cicala – a tramite interpretativo per l’Alighieri», il modello dantesco entra nella visione sociale e nel sistema morale del giovane Rebora, per poi alimentare ogni successiva attività, nel segno della poesia e della fede. Ha ragione Casadei, quando nella presentazione sottolinea che «il dantismo reboriano risponde a un dubbio espresso a suo tempo da Charles S. Singleton, ossia se è possibile comprendere integralmente la Divina Commedia senza un’adesione alla religione cristiana». La parola-chiave, in questa frase, più ancora che ‘religione’ o ‘cristiana’, è ‘adesione’: il dantismo di Rebora – così come emerge nei documenti e nelle analisi offerti nel volume – si compie infatti per via di un’adesione quasi letterale all’ispiratore. È questa la sua qualità distintiva rispetto alla maggior parte degli autori del Novecento italiano ed europeo, che ricevono ed elaborano il precedente dantesco per lo più in chiave di allegoria, ricavandone cioè soprattutto un modello di rappresentazione e interpretazione tragica o politica di un tempo postumo (dopo un crollo, un esaurimento) e collettivo. Rientrano in questa dimensione, per esempio, il dantismo culturale e apocalittico della Bufera montaliana; o il dantismo profetico di Fortini, influenzato dagli studi di Auerbach sul procedimento figurale. Ebbene, il dantismo di Rebora è radicale perché, diversamente da quello di altri poeti, è soprattutto morale e personale; si colloca sulla soglia, senza oltrepassarla, tra una lettura esemplare di Dante, di ascendenza ottocentesca, e un’appropriazione modernista. Forse anche questa è una manifestazione di «quella inattualità che Rebora perseguiva coscientemente» (sono ancora parole di Fortini). Certo, anche per l’autore dei Frammenti lirici l’immaginario infernale rende esprimibile l’orrore della guerra; ma, più che da questa funzione topica, il rapporto con Dante è caratterizzato dalla lunga, costante meditazione. Cicala ricostruisce e documenta minuziosamente quest’itinerario, esaminando, oltre alle poesie e alle lettere, materiali notevoli e finora inediti: le postille alla Commedia, gli appunti per le lezioni del 1929-’30 (distribuiti in quattro quaderni) e altre note sparse, di cui in appendice si trova l’edizione, con il commento del curatore e alcune riproduzioni. Ciascuna di quelle chiose è il segno materiale dell’adesione di Rebora alle parole e alla dottrina della Commedia, perfezionata nel tempo attraverso un lavoro assiduo, una costanza devota.