Stavolta è successo in carcere. Una donna tedesca di 33 anni, detenuta all’interno del “nido” della sezione femminile di Rebibbia, in preda ad un raptus avrebbe gettato giù dalla rampa di scale i suoi due figli, uccidendo sul colpo la bambina più piccola, di soli sei mesi, e ferendo gravemente il bambino di circa due anni.

Era in carcere solo dal 26 agosto scorso, A. S., nata in Germania ma di cittadinanza georgiana, «arrestata in flagranza di reato per concorso in detenzione di stupefacenti (articolo 73, ndr)», secondo quanto comunicato dal ministro di Giustizia Alfonso Bonafede che ieri si è recato nel carcere romano e poi in visita all’ospedale pediatrico Bambino Gesù dove è ricoverato in condizioni gravissime il piccolo. Il Guardasigilli «ha subito avviato un’inchiesta interna volta a ricostruire l’esatta dinamica dei fatti e ad accertare eventuali profili di responsabilità».

«Intorno all’ora di pranzo e nello spazio di pochi minuti – informa la nota ministeriale – si consumava il tragico gesto» della donna che proprio ieri mattina avrebbe dovuto avere un colloquio con i suoi parenti. Le condizioni del bambino di due anni sono particolarmente critiche, secondo il primo bollettino sanitario, «con danno cerebrale severo». «Il bambino è in prognosi riservata ed è sottoposto attualmente a supporto rianimatorio avanzato e in ventilazione meccanica. È in programma un intervento neurochirurgico».

Anche il procuratore aggiunto Maria Monteleone di Roma, coordinatrice del pool dei magistrati che si occupa dei reati sui minori, ha aperto un’inchiesta. E dalle prime indiscrezioni circolate, pare che la donna fosse stata già segnalata al servizio psichiatrico durante la visita psicologica che si svolge di routine all’ingresso in carcere, e avesse già manifestato alcuni disagi psichici (associati probabilmente ad una tossicodipendenza). Fonti della polizia penitenziaria fanno sapere alle agenzie di stampa che gli stessi agenti avrebbero depositato relazioni scritte per segnalare la donna all’area sanitaria.

In realtà, al Garante nazionale dei diritti delle persone private di libertà, Mauro Palma, non risulta ci sia mai stato nella posizione detentiva della donna alcun «evento precedente», come si dice in gergo. Non sarebbero cioè mai stati registrati, nella vita carceraria della 33enne georgiana, eventi di rilevanza tale da lasciare presagire una tale tragedia. O almeno non sarebbero mai stati trasmessi alle autorità preposte.

I dettagli della terribile notizia sono ancora sconosciuti, eppure si è già scatenata la speculazione politica di certi sindacati di polizia penitenziaria e delle destre più giustizialiste che chiedono ora di cambiare la legge. Non per decretare l’incompatibilità con la vita carceraria delle donne con figli minori di tre anni, ma al contrario per separare le detenute dai loro bambini.

Attualmente in tutta Italia 62 bambini sono reclusi insieme alle loro madri (52 donne). Di questi, la metà circa è ospitata negli Icam (Istituti a custodia attenuata, creati con la legge 62/2011) insieme alle madri detenute, gli altri in carcere. E di questi ultimi, la maggior parte si concentra proprio a Rebibbia, dove al 31 agosto erano reclusi 16 bimbi con 13 madri.

Esistono anche le case protette, ma l’unica funzionante in Italia è la «Casa di Leda» che attualmente ospita «solo 4 donne – riferisce il responsabile, Lillo Di Mauro – quando avremmo potuto ospitarne 6, mentre nel carcere c’è il sovraffollamento di mamme con bambini. E questa è la contraddizione di una legge che non raggiunge gli obiettivi per i quali è stata approvata».

«Nella parte della riforma dell’ordinamento penitenziario che era stata quasi portata a termine – ricorda Rita Bernardini, della presidenza del Partito Radicale – e non è stata approvata né dal precedente né dall’attuale governo, si cercava di superare questo problema della detenzione dei bambini. Ma sono le leggi ad essere assassine».

In effetti, sia Di Mauro che Palma riconoscono la grande professionalità e sensibilità della direttrice di Rebibbia, Ida Del Grosso, degli agenti e degli operatori del “nido”. «Dobbiamo partire dall’idea – sottolinea invece il Garante – che il bisogno e il diritto di un bambino che deve evolvere e sviluppare la sua vita deve essere prevalente anche alle nostre esigenze di punizione rispetto al genitore. A partire da questo le amministrazioni locali devono predisporre le strutture che garantendo la sicurezza all’esterno offrano case famiglia protette e la possibilità di vivere in un ambiente non detentivo».