Il giorno dopo della tragedia di Rebibbia, mentre i medici ospedalieri dichiaravano la morte cerebrale anche del secondo bambino della detenuta tedesca che martedì mattina ha gettato giù dalla rampa delle scale del “nido” del carcere i suoi due figli, con una misura che a memoria non ha precedenti, ieri il ministro di Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso Ida Del Grosso, la direttrice della casa circondariale femminile romana, la sua vice, Gabriella Pedote, e la vice comandante della Polizia penitenziaria, Antonella Proietti.

Una misura, questa, «affrettata e controproducente», l’hanno bollata in molti, dentro e fuori il mondo della giustizia e delle carceri, dai Radicali di +Europa a Leu e al Pd, dai sindacati di polizia penitenziaria ai garanti dei detenuti.

Un provvedimento ad effetto, che si vorrebbe ispirato dall’assoluta intransigenza e si presta bene a spostare l’attenzione sull’ultima ruota di un carro – il carcere – che non funziona perché mal congeniato e continuamente boicottato. E assolve un ministro e un governo che, solo per fare un esempio, non hanno esitato un istante ad affossare, ad un passo dall’approvazione definitiva, la riforma penitenziaria che, tra gli altri nodi, si occupava del problema irrisolto dei troppi bambini costretti alla detenzione in carcere con le loro madri (come fa notare l’ex Guardasigilli Andrea Orlando, non certo esente da responsabilità in merito).

«Se ho preso questi provvedimenti – ha spiegato Bonafede, intervenendo a “L’Aria che tira” su La7 – vuol dire che ho ritenuto che sono stati fatti errori. Il messaggio deve essere chiaro: nel mondo della detenzione non si può sbagliare». E commentando chi sottolinea l’incompatibilità con il carcere di una detenuta straniera tossicodipendente, con due bambini piccoli e problemi psichici, il ministro ha risposto: «Se c’è una cosa che mi fa schifo – parole testuali – è che quando c’è una tragedia tutti si improvvisano tuttologi, commentano la legge e parlano. C’è solo da stare zitti e da attendere gli accertamenti. Io come ministro ho già preso i miei provvedimenti a tempo di record».

In effetti auspicava il silenzio anche il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma, che ieri ha però voluto precisare in una nota che la responsabilità di quanto accaduto a Rebibbia, oltre che personale della detenuta, «è responsabilità collettiva: della carenza di strutture di casa famiglia protette, che esistono in numero limitatissimo e che dovrebbero costituire la soluzione prioritaria; delle comunità locali che spesso non gradiscono le presenze delle detenute madri nel loro territorio; della pretesa volontà di anteporre le necessarie esigenze di giustizia a quelle due tutele a cui si faceva riferimento prima; di un’opinione pubblica che volge il suo sguardo al carcere solo in occasione di tragedie e non anche ai molti aspetti di cura e tutela che vi si svolgono ogni giorno. Certamente – conclude Palma – la responsabilità non è del punto terminale di chi si trova a dirimere tale intrico di conflitti e di problema aperti e che, nel caso della direzione dell’Istituto femminile di Roma, lo ha sempre fatto con la massima attenzione a tutte le diverse esigenze».

Intanto ieri la procura ha diramato un appello per cercare il padre dei due bambini uccisi a Rebibbia, Ehis E., di nazionalità nigeriana, al fine di ottenere l’autorizzazione per l’espianto degli organi del bimbo più grande del quale ieri è stata dichiarata la morte cerebrale (nato a Monaco di Baviera il 2 febbraio 2017, mentre la sorellina morta sul colpo era nata nella stessa città tedesca il 7 marzo scorso).

«I miei bambini adesso sono liberi», avrebbe detto la detenuta 33enne al suo avvocato, Andrea Palmiero. Tedesca di nascita, georgiana di origine, arrestata in flagranza di reato il 26 agosto per concorso in possesso di 10 kg di marijuana, A.S. è tossicodipendente e in passato avrebbe tentato il suicidio, secondo quanto appreso dagli inquirenti nelle ultime ore. «Sapevo che ieri (martedì stesso, ndr) era in programma l’udienza davanti ai giudici del Riesame che dovevano discutere della mia posizione. I miei figli li ho liberati, adesso sono in Paradiso», ha spiegato al suo legale la donna che si trova piantonata nel reparto di psichiatria dell’ospedale Sandro Pertini. Una donna che forse avrebbe avuto bisogno di un aiuto psichiatrico assai prima di commettere il reato, di essere aiutata a crescere quei due figli che aveva chiamato – significativamente – Faith (Fede) e Divine.