Di fronte a due bimbi morti e alla tragedia immane avvenuta nel carcere femminile di Rebibbia avremmo tutti dovuto chiuderci in un rispettoso silenzio. Di fronte a un fatto di cronaca così terribile il silenzio ha una forza etica imparagonabilmente superiore a chi spreca parole per spiegare, strumentalizzare, sentenziare. Una rottura del silenzio, anche da parte mia, è però necessaria per svelare il gioco del capro espiatorio e per restituire dignità a persone che la meritano.

Mario Gozzini, cattolico, eletto negli anni ’80 in Parlamento nelle liste del Pci, è stato il padre della riforma penitenziaria del 1986. Negli anni successivi all’approvazione della legge Gozzini era diventato il capro espiatorio di tutti i crimini commessi o impuniti nel nostro Paese. Lui stesso scriveva come spesso gli fosse detto in modo superficiale che lui era tanto sensibile al tema soltanto perché era cattolico. A costoro Gozzini rispondeva che la professione di fede non c’entrava nulla e che per lui la questione penitenziaria era una questione sociale, civile, naturale, politica, economica. Infine, con il sorriso, spiegava che era ben lieto che il suo impegno si incrociava con un’esortazione di Cristo che aveva identificato se stesso con in carcerati (Matteo 25, 36). Gozzini funzionava bene come capro espiatorio ogniqualvolta un detenuto in misura alternativa commetteva un delitto.

E ieri bene ha funzionato nella comunicazione pubblica un altro capro espiatorio. Il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede ha sospeso dalle loro funzioni la direttrice, la vice-direttrice e la vice-comandante del carcere femminile romano. Il capro espiatorio è servito con una tempestività che non lascia spazio a dubbi, difese, ragionamenti, biografie. Di fronte a un crimine che dovrebbe lasciare sbigottiti, un crimine che rimanda alla mitologia greca, si puniscono con la sospensione dal servizio, con severità raramente vista nelle istituzioni penitenziarie (di certo non vista in quelle galere dove si tollerano violenze), tre persone per bene.

Conosco personalmente la direttrice e la vice-direttrice di quel carcere e so che sono tra le dirigenti più brave, aperte, attente ai bisogni delle donne recluse presenti nel nostro sistema penitenziario. Le ho viste al lavoro mostrando grande rispetto e cura nei confronti delle detenute. Non so di quale errore siano responsabili. So però che non meritavano, alla luce della loro preziosa carriera, tale sospensione dall’incarico. Di certo, da oggi le detenute del carcere romano non staranno meglio di prima.

Una volta che il capro espiatorio è servito dovremo affrontare un altro tema, ossia cosa vogliamo che accada quando una madre di un bimbo piccolo finisce in carcere. Sono molti i Paesi dove i bambini sono destinati all’istituzionalizzazione. Se dalla tragedia della follia avvenuta a Roma dovessimo uscirne con un ritorno a un passato di separazione forzata, violenta e dannosa dei figli dalle mamme allora vorrà dire che il capolavoro è drammaticamente compiuto.