Se la lunga e prolifica carriera di Rebecca West venisse utilizzata per provare una tesi, questa potrebbe consistere nella prova che l’eclettismo artistico nuoce molto più alle donne che agli uomini. Nata Cicely Isabel Fairfield nel 1892 a Londra, e ribattezzata in omaggio al personaggio del dramma di Ibsen La casa dei Rosmer, Rebecca West ha occupato la scena letteraria britannica per sei decenni grazie alla pubblicazione di romanzi, novelle, memoir di viaggio, studi critici e articoli giornalistici che le valsero la consacrazione a «miglior scrittrice al mondo», da parte di Time nel 1947.

Figlia di una talentuosa pianista scozzese e di un giornalista anglo-irlandese che aveva abbandonato la famiglia dopo il tracollo finanziario, nonché protagonista di cronache mondane per le storie d’amore con H.G. Wells e Charlie Chaplin, Dame West è stata tradotta in tutto il mondo fino agli anni Sessanta, per poi cadere in un oblio dal quale l’hanno riscattata i Women’s Studies anglosassoni, seppure con qualche distinguo, rispetto a icone moderniste del calibro di Virginia Woolf, Katherine Mansfield e Vita Sackville-West.

Romanzo del 1929
Il rilancio italiano di Rebecca West è stato inaugurato da Neri Pozza nel 2009 con Il ritorno del soldato, per poi passare all’editore Fazi con la trilogia degli Aubrey, cui segue ora Quel prodigio di Harriet Hume, il suo terzo romanzo pubblicato in Gran Bretagna nel 1929 (traduzione di Francesca Frigerio, pp. 259, € 18,00).

Attenendosi alla tradizionale distinzione tra «novel» (il racconto realistico) e «romance» (il racconto gotico e favoloso), non c’è dubbio che Quel prodigio di Harriet Hume debba essere ascritto al genere del racconto fantastico, a differenza dei precedenti romanzi di West che hanno un impianto mimetico. Si deve presumere che sia questo il motivo per cui la traduttrice ha scelto di anticiparne il contenuto introducendo nel titolo la parola «prodigio» e di occultarne, per converso, la parte più topograficamente e culturalmente connotata: Harriet Hume. A London Fantasy. Il risultato di una scelta chiaramente dettata da esigenze editoriali è la perdita secca delle vibrazioni avanguardiste che costituiscono l’humus del romanzo a favore di un’accentuazione del piano tematico. Se è indubbio che il motore dell’intreccio è la telepatia della protagonista, ovvero un dono misterioso che consente alla donna l’immersione totale nella mente dell’amato, e che il nucleo della storia ruota intorno alla simbiosi ineluttabile che si genera tra i due amanti, è altrettanto vero che il senso dell’opera non si esaurisce nel sensazionalismo fin de siècle che strizza l’occhio ai romance di Wilde, Stevenson, Wells e Marie Corelli.

Prima di esibire qualsiasi altro elemento, Quel prodigio di Harriet Hume si presenta al lettore odierno come un divertissement nel quale una prosa modernista, costruita su cesure temporali, monologhi interiori e segmenti narrativi fortemente cinematici, incapsula una storia di emancipazione femminile dal gusto decadente e dalle ambientazioni stilizzate che, a fine anni Venti, suona già vagamente retro – basti pensare che Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf viene pubblicato nello stesso anno.

I protagonisti
Arnold Condorex è un self-made man ambizioso e privo di scrupoli, che si fa strada nella politica dopo la grande guerra, entrando in loschi affari con uno stato indiano negli anni in cui il mito dell’impero è già al tramonto. Harriet Hume è una pianista povera e mentalmente libera che si guadagna da vivere suonando in vari concerti. Arnold fa un matrimonio di interesse che lo proietta nel bel mondo londinese, ma viene ciclicamente attratto nell’orbita di Harriet, la quale lo tiene legato per vent’anni con l’abilità stregonesca di intercettarne ogni pensiero, ogni traccia mnemonica, ogni minimo sommovimento dello spirito.

Per gran parte del racconto un narratore scaltro e falsamente neutrale accompagna il lettore in una spasmodica esplorazione delle menti dei protagonisti, i quali ingaggiano una vera e propria lotta per affermare il proprio potere, nel corso della quale lui tenta di sottrarsi alla intelligenza penetrante di lei, attribuendole i vezzeggiativi più sminuenti e sessisti (ninfa, gattina, paperina, scolaretta, sgualdrinella), e lei non rinuncia a contrapporre al grossolano materialismo di lui la propria sensibilità artistica, nonché l’attitudine introspettiva a anticiparne le mosse. «Erano come un vaso greco, lui il solido recipiente, lei la decorazione a spirale che lo avvolgeva interamente. Ma quel vaso era andato in frantumi l’istante dopo essere stato creato, perché lui sentiva premere sul petto come piombo la smania di farsi strada nel mondo, e sapeva che lei ne era consapevole».

Prevedibilmente, l’agone si conclude con la vittoria morale di Harriet e dei valori positivi da lei incarnati: bellezza, indipendenza, integrità, spiritualità. Senonché, essendo i due amanti speculari e legati da un unico destino, il trionfo di Harriet coincide con il parziale riscatto di Arnold. Grazie alla telepatia – che a altro non allude se non l’ingrato dono femminile di prendere le parti degli uomini e amarli incondizionatamente – Harriet riesce in extremis a sottrarre Arnold alla pubblica gogna, inducendolo suo malgrado a confrontarsi con la propria mascolinità prepotente e corrotta.

Convinta che ogni artista debba posizionarsi «lontana dall’innocenza almeno quanto lo è una guerra moderna», nonché grande sostenitrice della complessità di James, Woolf, Joyce e Proust, Rebecca West si compiace di mostrare in trasparenza l’eclettica costellazione di modelli letterari ai quali si è ispirata per comporre Harriet Hume: da Poe e Stevenson per il motivo del doppio, al Velo sollevato di George Eliot per la telepatia, fino a Daisy Miller di Henry James, lo scrittore prediletto sul quale ha scritto pagine significative e dal quale ricava il ritratto di una donna capace di resistere all’oggettivazione con la forza di uno sguardo altrettanto penetrante del desiderio maschile proiettato su di lei.

Reincantare la metropoli
Eppure, a fare di Harriet Hume un romanzo gustoso, intonato anche alla sensibilità di oggi, non è tanto la declinazione ossessiva della relazione amorosa raccontata con ironica verve, quanto il fatto che essa sia resa possibile esclusivamente dall’avere luogo in una Londra post-bellica, resa surreale dal tocco di un realismo magico capace di reincantare lo spazio metropolitano traumatizzato dalla guerra. Impossibile non avvertire dietro questa «fantasia londinese», la presenza di Orlando, l’eccentrico romanzo con cui soltanto l’anno prima Virginia Woolf aveva rilanciato il mito della Englishness in chiave transgender.

Rebecca West amava e conosceva in profondità la sua Londra, che maneggia narrativamente come un iperspazio tanto straniato e straniante nel suo eclettismo architettonico, ancorché quintessenzialmente inglese nell’ambizione di integrare la macchina e il giardino, la città e la campagna, la city e l’impero, rendendo avvincente anche la più trita delle storie d’amore.