«Il presidente cucciolo», cosí l’hanno definito i sostenitori di Trump, sconcertati dal cambiamento di tono del loro presidente sull’Islam: si aspettavano fuoco e fiamme, ma ciò che hanno sentito li ha lasciati con l’amaro in bocca.

In effetti per una base che ha votato un presidente che dell’islamofobia aveva fatto un cavallo di battaglia, non sentire all’estero lo stesso tono incendiario che Trump usa in casa è stata una vera delusione.

Per ragioni diverse, a non aver gradito il discorso dall’Arabia Saudita anche buona parte della comunità musulmana Usa, rimasta piuttosto scettica. Come ha dichiarato ad Npr Trita Parisi, docente della Johns Hopkins e della George Washington University e presidente della più grande organizzazione iraniano-americana negli Stati Uniti, la National Iranian American Council: «Questo sarà ricordato non come discorso per la richiesta di una nuova era di pace, bensì come il discorso che ha posto la prima pietra verso una nuova era di confronto con l’Iran, un discorso che è stato messo a punto e avviato da Donald Trump su richiesta della dittatura dell’Arabia Saudita».

Critica anche la Anti Defamation League, associazione ebraico americana che si occupa di crimini d’odio: nel loro ultimo rapporto «25 anni di rabbia», si legge che stando ai numeri i crimini commessi dall’alt right americana – la destra razzista – sono il vero pericolo terrorismo in Usa, più che lo terrorismo islamico.

Ma il primo viaggio all’estero di Donald Trump da presidente non sposta l’attenzione americana dal fuoco politico del Russiagate sotto il quale resta la Casa Bianca, nonostante l’accordo sulle armi e oltre altri investimenti che il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha stimato ammontare ad un totale di 350 miliardi di dollari.

In mezzo a un clima a dir poco di frustrazione, i funzionari al seguito di Trump continuano a cercare di coordinare risposte con i loro colleghi a Washington, ma alle domanda dirette su tutti gli scandali e gli scoop che hanno investito la Casa Bianca dal decollo del Air Force One, la risposta è stata sempre che per motivi di sicurezza nazionale, «non confermiamo o neghiamo l’autenticità dei documenti classificati e presunti pericolosi».

Un no comment, nella speranza che il tutto si sgonfi naturalmente sommerso da nuove notizie provenienti da oltre mare.

Sembra però solo un modo per tirare il fiato in attesa di inevitabili altri diluvi: altra benzina sul fuoco l’ha messa la notizia che l’ex consigliere della sicurezza nazionale Michael Flynn ha rifiutato di testimoniare davanti al comitato di intelligence del senato, appellandosi al quinto emendamento contro l’autoincriminazione e rifiutandosi di consegnare i documenti che il comitato aveva richiesto.

Ciò che preoccupa molti negli Stati Uniti è come tutti questi eventi abbiano portato a un repentino cambiamento di compagni di letto, per cui ora la destra appoggia Assange e Rt, mentre i liberal si accompagnano a Fbi e Cia.

«Il problema è che dal 9/11 abbiamo autorizzato l’intelligence a tenere all’oscuro i cittadini sulle loro procedure di applicazione della legge», ha dichiarato Mike German, ex agente speciale dell’Fbi specializzato in terrorismo di destra americano e in operazioni segrete, che ha lasciato l’Fbi nel 2004 dopo aver segnalato al congresso le deficienze del Fbi contro il terrorismo «alt right», per poi entrare a far parte dell’ufficio legale dell’Aclu, l’associazione che si occupa di diritti civili.

«L’Fbi – ha concluso – è una delle agenzie governative più importanti, protegge gli americani da crimini e minacce straniere e rafforza la legge colpendo la corruzione pubblica, ma spesso l’Fbi abusa dei suoi strumenti, la storia mostra che i presidenti usano l’ufficio per spiare i rivali e ottenere risultati politici. Un Fbi politicizzato può fare grandi danni sia alla democrazia che alla sicurezza».