Arturo Martini, “Gli amanti”, part., 1920-’21, Milano, FAI

C’è un supplemento di magia in questa ritorno del Realismo magico a Milano, dopo il precedente del 1989 curato da Maurizio Fagiolo dell’Arco. La mostra ha infatti una doppia dedica a Elena Marco e a Emilio Bertonati. Elena Marco è la moglie, scomparsa prematuramente nel 2020, di Mario Bellini, architetto ed eccezionale collezionista degli artisti di questa stagione contrassegnata da quel plausibilissimo ossimoro.

Bellini, oltre ad essere il più importante prestatore, ha firmato anche l’allestimento delle sale di Palazzo Reale; un allestimento calmo, ritmato, con un marrone elegante e uniforme che cala il visitatore in quel presente sospeso. Emilio Bertonati invece è il gallerista, collezionista e critico che negli anni settanta, con grande fiuto e determinazione, aveva riscoperto la Nuova Oggettività tedesca e il suo addolcito contraltare italiano: Realismo magico, a cura di Gabriella Belli e Valerio Terraroli (fino al 27 febbraio, catalogo Sole24Ore cultura).

Il Realismo magico non è stato istanza organizzata alla stregua di un movimento, ma una posizione tacitamente condivisa sull’onda di quel Rappel à l’ordre raccomandato da Jean Cocteau con i saggi scritti all’indomani della grande carneficina della Guerra Mondiale e profeticamente anticipato da maestri disallineati come André Derain e Giorgio De Chirico. È un momento breve, circoscrivibile alla prima metà degli anni venti, anche se, per tanti protagonisti, quella stagione era destinata a prolungarsi e a consolidarsi come una grammatica visiva alla quale restare agganciati.

Era stato un critico tedesco, Franz Roh, a coniare nel 1925 l’ossimoro per descrivere un fenomeno che coinvolgeva tutta l’Europa. La declinazione italiana era marcatamente segnata da un ritorno alla tradizione e in particolare a una visione neo-quattrocentesca che Carlo Carrà per primo aveva indicato come riferimento per una pittura che voleva lasciarsi alle spalle il disordine delle avanguardie e il furore dell’espressionismo. «Faccio ritorno a forme primitive, concrete, mi sento un Giotto dei miei tempi», scriveva Carrà in una lettera a Giovanni Papini. Nell’introduzione al catalogo Terraroli parla di «un generale richiamo, arrivato dalle pagine di “Valori Plastici”, a una sobrietà atemporale, in cui la forma trionfa sull’indistinto e la plasticità si fa severa e architettonica».

A fondare Valori plastici era stato, insieme alla moglie Edita, Mario Broglio, che oltre a mettere in atto in quanto artista quella nuova visione, si era rivelato un formidabile propagandista, esportando, già nel 1921, le opere dei colleghi del Realismo magico in Germania. Broglio con Edita sono due figure centrali nel percorso di Palazzo Reale. La loro è una declinazione morbida del ritorno all’ordine, tenue nei toni, e del tutto antitetica alla retorica del Novecento teorizzato da Margherita Sarfatti. È una situazione che può far pensare a un ripiegamento in una dimensione di intimismo, a una chiusura dell’arte su se stessa, come in un microcosmo parallelo in cui valgono riferimenti formali fuori dal tempo (Casorati e i due Broglio tornano anche a dipingere su tavola, quasi per obbligarsi a una disciplina neo-quattrocentesca).

In realtà dentro il guscio protettivo di questo ritorno all’ordine c’era spazio per una complessità e per avventure innovative e illuminate, come quella che vide protagonista a Torino Felice Casorati, in dialogo serrato con il collezionista Riccardo Gualino. In una delle sale più belle della mostra, i Gualino, rispettivamente padre, madre e giovane figlio, con i loro ritratti frontali e cristallizzati, sembrano farsi spettatori delle due ballerine Cynthia Maugham e Raja Markman, ugualmente immortalate da Casorati, in due quadri davvero magici, ed esposti sulla parete di fronte. Creature dai lineamenti fatati e sottilmente malinconici, Cynthia e Raja erano state chiamate da Cesarina Gualino per dar vita a un laboratorio di danza moderna nel teatrino privato costruito in via Galliari, inaugurato nel 1925. Casorati si era occupato della decorazione interna del teatrino. Nel 1930 avrebbe sposato Daphne, la sorella pittrice di Cynthia.

L’aver pensato la mostra anche come un omaggio a Emilio Bertonati ha suggerito ai curatori di inserire nel percorso alcune testimonianze della Nuova Oggettività tedesca. Sono inserimenti sempre precisi e tematicamente pertinenti, che rendono evidente la differenza di temperatura tra le due esperienze.

L’imprenditore di Heinrich Davringhausen è un ritratto spietato, emblema di un capitalismo che si preparava a consegnare la Germania al nazismo. I due paesaggi di Franz Radzwill prefigurano scenari tempestosi, con cieli di tenebra solcati da luci bellicose: la storia preme drammaticamente e finisce con lo scuotere l’ordine ritrovato della pittura.

Il coté italiano, per quanto si misuri con il fascismo già in atto, invece si muove su registri molto più pacati e antipolitici: del resto, come sottolinea Gabriella Belli, questo era un modo per sottrarsi «dall’asservimento al movimento di Novecento di Margherita Sarfatti, con il quale il Realismo magico è sempre stato ambiguamente confuso, ma dal quale si distingue profondamente per contenuti e modi».

La differenza radicale con Novecento è testimoniata dal caso di Cagnaccio di San Pietro, la presenza «più dura e inclemente» e forse per questo più intrigante del Realismo magico. Il suo Dopo l’orgia (1928) era stato rifiutato dalla Biennale presieduta proprio dalla Sarfatti. Dal polsino abbandonato sul pavimento spuntava infatti un gemello decorato con l’insegna del fascio, denuncia sottile ma feroce al machismo di regime. Paradossalmente Cagnaccio era invece piaciuto a Hitler: in visita alla Biennale del ’34, aveva puntato gli occhi sul suo ritratto di Randagio, un ragazzo derelitto che allunga la mano per chiedere l’elemosina. L’artista non voleva saperne di cederlo al dittatore, ma alla fine, messo sotto pressione, dovette arrendersi. Ne fece subito una replica, che oggi è custodita al Mart.

Cagnaccio, al secolo Natalino Bentivoglio Scarpa, era stata una scoperta proprio di Bertonati. Nel 1971 gli aveva dedicato una personale alla Galleria del Levante di Milano che nel sottotitolo veniva definita Prima retrospettiva, come a sottolineare la dimenticanza in cui l’artista era stato colpevolmente relegato dopo la sua morte avvenuta nel 1946. Il testo del catalogo era firmato da Giovanni Testori, che in quegli anni collaborava in modo sistematico con il gallerista, curando tra le altre cose, in quello stesso anno, la prima grande mostra pubblica sulla Nuova oggettività alla Rotonda della Besana di Milano, in anticipo sulla stessa Germania. Testori era anche collezionista e tre dei Cagnaccio presenti in mostra conservano ancora le cornici che avevano quando erano appesi ai muri della casa novatese dello scrittore.

Con Cagnaccio inevitabilmente sale la tensione drammatica della mostra e cambia anche il campionario umano dei soggetti, presi dal popolo e non più da quell’élite colta e illuminata. Il ritorno all’ordine diventa così per lui una formula per rappresentare, con precisione icastica, gli squilibri sociali di quel tempo. Non solo sociali, ma anche di genere, come nel caso di Primo denaro, un capolavoro del 1924, dove vediamo lo scorcio violento di una figura femminile nuda, addormentata al fianco del piattino con il compenso per la sua prestazione: dettaglio drammatico e crudele.

La conclusione è quindi, inevitabilmente, nel segno della pittura di Cagnaccio, chirurgica e accorata nello stesso tempo. La magia lascia il campo a un’amarezza, inevitabile riflesso della Storia.