Quando nel 1991 il New Yorker pubblicò il racconto «Il pugile a riposo», Thom Jones lavorava come bidello in una scuola superiore e seguiva un doppio percorso di riabilitazione, afflitto da alcolismo e da una dipendenza da farmaci, a seguito dell’epilessia causata da un trauma cerebrale subìto sul ring. Aveva ereditato la passione per la boxe dal padre, morto suicida dopo essere stato internato in un ospedale psichiatrico che, per una curiosa quanto significativa coincidenza, fu lo stesso in cui Miloš Forman ambientò Qualcuno volò sul nido del cuculo.

«Il pugile a riposo», storia cruda ma cupamente ironica raccontata dall’unico marine sopravvissuto a un’imboscata durante la guerra del Vietnam, ebbe un successo straordinario e diede il via alla carriera dell’autore, allora più che quarantenne: un improvviso rovescio del destino che è quasi una redenzione, la stessa che molti dei malmessi protagonisti di Jones sembrano cercare, spesso senza successo. Lo scrittore Thomas Guane ebbe a dire che probabilmente nessun autore aveva immortalato l’inferno del Vietnam con la stessa forza, rappresentando egregiamente anche l’alterità quasi aliena di quella guerra. Paradossalmente però, benché Jones avesse iniziato l’addestramento nel corpo dei Marines fotografandone poi la durezza, la follia e il fanatismo quasi religioso in molti dei lavori successivi, in Vietnam non arrivò mai, essendo stato congedato prima che il suo plotone fosse spedito oltreoceano: una nota beffarda in linea con lo stile della sua scrittura.

Questa breve digressione biografica per introdurre i temi e i motivi che l’autore, sviluppata una tardiva ma incontrollabile compulsione alla scrittura e alla lettura a seguito dell’infortunio, sfrutterà nei suoi racconti. Li ritroviamo pressoché tutti, insieme a una dose massiccia di musica rock americana degli anni Sessanta e Settanta, nella raccolta postuma Il treno notturno (tradotta egregiamente da Martina Testa, minimum fax, pp. 483, € 19,00) che contiene una selezione dei suoi lavori migliori e sette inediti. Tra questi, il racconto che dà il titolo alla raccolta: un piccolo gioiello di realismo tragicomico dove si ripropone la grande tradizione americana della letteratura di provincia, fatta di personaggi spesso grotteschi tradotti sulla pagina con il linguaggio icastico tipico del genere.

Da questo punto di vista, Jones è un altro discepolo del cosiddetto dirty realism (il gusto per i ritratti di degrado surreale à la Charles Bukowski è evidente), ma, contrariamente a molti esponenti di questa corrente, non si confina all’interno dei confini di un mondo virile fatto di pugili, delinquenti e grandi bevitori.
«Voglio vivere!» racconta gli ultimi giorni di una donna malata di cancro, dolente ma impietoso nel descrivere il decadimento del fisico e la rivolta della mente di fronte al vuoto. In «La cocca di papà» è di nuovo una narratrice a condividere la storia della sua famiglia, e in particolar modo delle due sorelle, prima di abbandonare per sempre questo mondo nel dubbio che la fede alla quale si aggrappa non la salverà davvero.

Affascinato dal pensiero di Schopenhauer, che torna spesso nelle sue pagine, Jones è un esistenzialista che dimostra un pessimismo di fondo a volte di una cupezza quasi insostenibile. «Voglio un uomo che mi ami», il racconto in cui due suicidi passano gli ultimi momenti della loro vita insieme al telefono ne è un ottimo esempio. Calandosi nel ventre dell’America popolare per raccontarne i destini con sarcasmo, Jones non nasconde la propria predilezione per queste figure scalcinate – si tratti di bidelli insubordinati, dottori di stanza in Africa, tossicodipendenti o psicopatici. Ed è proprio nella rappresentazione dei disturbi psichici, di cui Jones soffrì per tutta la vita, che la sua scrittura raggiunge un equilibrio apprezzabile tra commedia e tragedia, eleganza e violenza. Nelle sue «storie da manicomio», come le definì lui stesso, la resistenza disperata nei confronti dell’assurdità della vita diventa la poetica di un’umanità destinata alla sconfitta, ma non per questo prostrata.