Non sorprende la decisione annunciata tra martedì e mercoledì da re Salman dell’Arabia saudita di nominare principe ereditario suo nipote Mohammad bin Nayef e Mohammad bin Salman, suo figlio, vice erede al posto del suo fratellastro Muqrin bin Abdul Aziz. Questo cambiamento radicale ai vertici della monarchia Saud, abbinato alla nomina di vari nuovi ministri, è in linea perfetta con la gestione muscolare che Salman ha avviato, soprattutto in politica estera, subito dopo la sua ascesa al potere quattro mesi fa alla morte di re Abdallah. I cambiamenti sono conseguenti e paralleli alla guerra all’Iran che Salman sta facendo in Yemen con i bombardamenti aerei contro gli sciiti Houthi (e non solo). E anche all’intenzione di (ri)dare all’Arabia saudita l’egemonia sulla regione del Golfo alla quale i Saud ritengono di avere pieno diritto, a ragione della loro potenza economica e dell’alleanza organica che mantengono da decenni con gli Stati Uniti, malgrado le crisi nei rapporti con l’Amministrazione Obama emerse dopo la decisione del presidente americano di riconoscere il programma nucleare iraniano. Salman ha anche sostituito il ministro degli affari esteri sollevando il principe Saud, ai vertici della diplomazia dal 1975, e nominando Adel Al Jubair, già ambasciatore negli Usa, considerato un falco sostenitore della guerra in Yemen e del confronto duro con l’Iran.

 

Qualche esperto di Medio Oriente ieri insisteva nell’inquadrare le scelte di re Salman essenzialmente all’interno di uno stravolgimento destinato a redistribuire il potere tra i “Sudairi”, i figli di Hassa al Sudairi, la favorita tra le 22 mogli di Abdulaziz al Saud, il fondatore del regno saudita. Il nuovo principe ereditario e il suo vice infatti appartengono al “clan Sudairi”. Al contrario l’ex erede Muqrin è figlio di Baraka al-Yamaniyah, una amante yemenita di re Abdulaziz. Ipotesi suggestiva, può darsi che re Salman abbia anche tenuto conto di ciò, ma poco aderente ad una realtà molto più politica, militare e strategica. Re Salman ha voluto mettere insieme una “squadra” di fautori della linea del pugno di ferro, determinati a fare dell’Arabia saudita una superpotenza regionale in grado di competere con il vicino Iran, di intervenire con ancora più forza nelle guerre civili in Siria e Iraq e di orientare la politica interna libanese contro i nemici sciiti di Hezbollah.

 

Il nuovo principe ereditario Mohammed bin Nayef, è tra i leader sauditi più stimati negli Stati Uniti ed un ex capo della sicurezza – sfuggito per un soffio ad un attentato di al Qaeda nel 2009 – che, si dice, oltre a mantenere ottime relazioni con la Cia condividerebbe la posizione di Israele contro l’Iran. Dopo il 2011 ha svolto un ruolo decisivo nell’intervento dell’Arabia saudita contro Bashar Assad in appoggio all’ex titolare del “file” siriano, il principe Bandar bin Sultan (in seguito destituito). In qualità di ministro dell’interno Mohammed bin Nayef non ha esitato a mostrare i muscoli a quella parte di riformisti e dissidenti che avevano alzato troppo la testa durante le proteste arabe. Da parte sua il nuovo ministro degli esteri al Jubair, in qualità di ambasciatore negli Stati Uniti, ha svolto un ruolo di primo piano nel mantenere strette le relazioni con Washington. Dopo l’11 settembre aveva avuto l’incarico delicato di ricucire i rapporti con la Casa Bianca di fronte al dato eclatante che i dirottatori degli aerei che si erano schiantati contro le Torri Gemelle, ad eccezione di un paio di loro, avevano tutti la cittadinanza saudita.

 

Alla luce delle nuove nomine, il processo di riforme interne di cui ormai si parla da una quindicina di anni – e che ha prodotto elezioni amministrative (2005), peraltro ma più ripetute, e la nomina di qualche donna in posizioni di apparente prestigio – è destinato a rimanere parcheggiato. Re Salman attua la stessa linea dei suoi predecessori. Si mostra (moderatamente) “liberale” nel settore della comunicazione, dei media, verso gli intellettuali (quelli che non mettono in discussione il potere assoluto dei Saud) e, allo stesso tempo, riconferma pieno appoggio alle gerarchie religiose wahabite che da sempre controllano la società e la giustizia impedendo progressi verso la realizzazione di riforme politiche e dei diritti delle donne.