Sono già visibili i riflessi dell’alleanza strategica tra Stati uniti e petromonarchie sunnite del Golfo sancita dal recente viaggio di Donald Trump in Arabia saudita. Ormai non ha più freni re Hamad bin Isa al Khalifa del Bahrain che, forte dell’appoggio di Riyadh e dei proclami del presidente americano contro «l’espansionismo iraniano», vuole saldare i conti con l’opposizione una volta e per tutte. Dopo la strage di Diraz, una roccaforte sciita a ovest della capitale Manama, dove una settimana fa la polizia ha ucciso cinque dimostranti, ieri i giudici della Suprema corte amministrativa hanno decretato lo scioglimento della “Società di azione nazionale democratica”, ossia il partito socialista Waad, e la confisca dei suoi beni. La decisione è stata presa dopo che a marzo il ministero della giustizia aveva accusato il Waad e il suo segretario generale Ebrahim Sharif di «sostenere il terrorismo». Ieri abbiamo cercato, senza successo, di raggiungere telefonicamente Sharif. L’ex segretario generale del Waad, Radhi Mousawi, da parte sua ha dichiarato alla stampa locale che la sentenza emessa dai giudici rappresenta «l’aborto» di qualsiasi tentativo di riformare democraticamente il Bahrain.

L’accusa di appoggio al terrorismo è assurda di fronte alla storia del Waad – il primo partito politico ad essere ufficialmente registrato nei Paesi del Golfo – che sin dalla sua fondazione negli anni Sessanta ha sempre portato avanti un’azione politica non violenta e ha visto tra i suoi leader anche un accademico di fama internazionale come Munira Fakro, docente ad Harvard e alla Columbia. Ma i giudici bahraniti ormai si limitano ad eseguire gli ordini della dinastia sunnita al Khalifa che si proclama vittima di un «complotto ordito da Tehran» per fare del Bahrain una repubblica sciita. Già l’anno scorso la monarchia (assoluta) aveva messo al bando il principale partito di opposizione, al Wifaq, e revocato la cittadinanza al religioso Issa Qassim, uno dei massimi esponenti dello sciismo del Bahrain. «Non abbiamo più alcuna tutela, siamo ignorati dalla comunità internazionale. Re Hamad lo sa e per questo ha ordinato di mettere a tacere qualsiasi dissenso, in ogni modo. I morti di Diraz potrebbero rivelarsi una nuova e più dura fase della repressione cominciata a Piazza della Perla», ci diceva ieri sera al telefono un attivista bahranita che ha chiesto di rimanere anonimo, riferendosi al sanguinoso intervento nel 2011, su richiesta di re Hamad, di truppe saudite e di poliziotti degli Emirati contro il campo di tende eretto dall’opposizione a Manama durante le “primavere arabe” per chiedere riforme democratiche e l’uguaglianza piena tra la minoranza sunnita che appoggia la monarchia assoluta e la maggioranza sciita discriminata e privata di alcuni diritti.

In quei giorni in cui furono massacrati decine di attivisti e manifestanti pacifici, il partito Wifaq, il più importante, venne estromesso dall’Assemblea nazionale dove, grazie ai risultati delle elezioni tenute nel 2010, era rappresentato da 18 deputati. Ieri il suo vice segretario, Hussain Aldaihi – il leader Ali Salman è in carcere -, ha chiesto alle Nazioni Unite di intervenire per fermare la repressione e di indagare sulla strage di una settimana da a Diraz. Aldaihi ha anche accusato la comunità internazionale di complicità. «Crediamo che questa ultima escalation e l’attacco a Diraz, così come quello a Issa Qassim, siano avvenuti con l’approvazione americana e britannica. Sono il risultato del silenzio e della complicità della comunità internazionale nei crimini commessi contro la maggioranza della popolazione di Bahrain», ha detto Aldaihi al portale d’informazione Middle East Eye.

La fine, ormai evidente, di ogni prospettiva di soluzione politica potrebbe, avverte l’attivista Maytham Salman, spingere soprattutto i più giovani a scegliere la strada di una resistenza violenta all’oppressione mentre restano inascoltati gli appelli di Amnesty International a fermare la repressione ordinata da re Hamad e alla liberazione dei prigionieri politici.