Come nei tempi supplementari del calcio, ci si affida al dodicesimo uomo. Che stavolta è anche l’undicesimo. Ma l’elezione bis di Giorgio Napolitano non è una festa, tranne che per Silvio Berlusconi che arriva presto nell’aula della camera e si gode quello che considera un personale trionfo. Con qualche ragione. Nel Pd c’è aria di sciagura, Bersani stanco e alla fine anche commosso si affaccia solo per applaudire doverosamente la proclamazione. Fuori la piazza si riempie. Nell’attesa di Grillo si alza il coro «Tutti a casa» e arriva nitido nelle stanze del Palazzo. Insieme al soffio pesante della storia: è la prima rielezione di un presidente in 65 anni di vita repubblicana.

Un’alba livida a Roma, quasi un ritorno di inverno, illumina le prime mosse del grande sconfitto di venerdì. Pier Luigi Bersani parla molto presto con il Quirinale e alle 10 del mattino prende la strada del Colle. Con lui Enrico Letta, erede designato delle macerie democratiche, ma anche probabile vertice politico, col segretario del Pdl Alfano, del prossimo governo. L’ipotesi che si era voluta tenere nel campo delle cose impossibili, il secondo mandato di Re Giorgio, prende corpo insieme ai ragionamenti sul nuovo governo. Nessuna alternativa alle larghe intese, Napolitano lo chiarirà subito.

[do action=”citazione”]Una livida giornata accoglie il voto presidenziale, mentre gli applausi dell’aula si confondono con la protesta della piazza. Dal Quirinale il monito: «Mi aspetto che tutti sappiano onorare gli impegni»[/do]

Il capo dello stato con dichiarazioni e interviste aveva garantito di non voler restare sul Colle. Non che non glielo avessero chiesto, ma era arrivato al punto di definire «ridicola» l’ipotesi del bis. Alla camera l’ottantasettenne Gustavo Selva – un anno più giovane di Napolitano – mostra ai giornalisti una lettera del capo dello stato con la data di ieri. «Ti ringrazio per l’invito a rendermi disponibile per un secondo mandato ma lo ritengo irricevibile per la concezione che ho e che considero obiettivamente fedele del ruolo del presidente della Repubblica». E invece no, non era irremovibile. Bisognava solo trovare la chiave giusta. Dopo Bersani, che spiega a Napolitano come il Pd non può reggere unito alcuna soluzione diversa dal reincarico, il presidente riceve Berlusconi. E poi Monti, preceduto da una dichiarazione rivelatasi intempestiva: «L’indisponibilità del presidente va rispettata». E dopo Monti anche una delegazione di presidenti delle regioni chiede di essere ricevuta al Colle, i grandi elettori sono così completi. E la provvidenza è invocata.

È toccato stavolta a Napolitano sciogliere la riserva, il “sì grazie” in una breve nota – «Ritengo di dover offrire la disponibilità che mi è stata richiesta» – nella quale però infila subito i primi avvertimenti: «Mi muove il sentimento di non potermi sottrarre a un’assunzione di responsabilità verso la nazione, confidando che vi corrisponda un’analoga collettiva assunzione di responsabilità». Per la seconda volta dopo l’esperimento Monti, questo presidente della Repubblica dovrà comporre un governo dalle macerie. E questa volta chiede ai partiti un’adesione ancora maggiore di quella che già ebbe nel novembre 2011. Governo tecnico ma stavolta anche politico. Se allora il Pd disse no a Giuliano Amato nell’esecutivo come sottosegretario, stavolta potrebbe trovarselo direttamente primo ministro. Insieme a Letta Enrico come presidio politico: non saranno solo tecnici. Napolitano chiede che non vengano poste condizioni e può chiederlo essendo i partiti, soprattutto il suo partito, in condizioni comatose. Blinda le istituzioni ed entra nella storia, proprio mentre il segretario del Pd esce dalla cronaca.
Il quadro politico è questo e nell’aula della camera diventa un tableau vivant. Per quattro volte, al raggiungimento del 504esimo voto, alla fine dello scrutinio, alla proclamazione dell’eletto e a fine seduta, tutto l’emiciclo – tranne l’estremità sinistra di Sel – si alza in piedi e applaude. Nei banchi del centrosinistra non c’è quell’allegrezza scomposta che si vede in quelli del centrodestra, ma l’applauso al nuovo e anche vecchio presidente parte forte. E insieme l’invito ai deputati e senatori a 5 stelle ad alzarsi in piedi. Vola anche qualche insulto. Ma loro non si alzano, se non alla fine, immobili, per omaggio all’istituzione (a quel punto quelli di Sel concederanno anche l’applauso). Ma uscendo dall’aula i grillini accusano la presidente Boldrini: troppo lunghe quelle esultanze, non una bella situazione per loro.

L’esausto pallottoliere alla fine della sesta votazione registra 738 voti per Napolitano, una cinquantina in meno rispetto a quelli disponibili da Pd-Pdl-Lega e montiani. E qualche voto in più, una decina, per Rodotà che ne conquista 217. Questa volta il presidente della Repubblica, sempre lo stesso, parte subito col mandato bipartisan – non c’è l’unanimità perché nel frattempo le parti sono diventate almeno tre. Ai presidenti di senato e camera che secondo liturgia vanno a comunicargli l’elezione – trovandolo ovviamente già al Quirinale – Napolitano affida un messaggio chiaro. La fiducia dei grandi elettori, sottolinea, mi è stata espressa «liberamente», cioè malgrado le pressioni fortissime dell’emergenza istituzionale. E adesso, di nuovo, «mi aspetto che tutti sappiano onorare i propri doveri», perché nel caso qualcuno non se ne fosse accorto, «il paese è in una situazione difficile». Il (presidente (ri)comincerà lunedì, andando alla camera a giurare con una scorta ridotta, 4 corazzieri invece di 18.