In teoria, volendo, quella della cittadinanza è una riforma che si potrebbe approvare in tempi strettissimi, rendendo così giustizia a più di un milione di giovani figli di immigrati che frequentano le nostre scuole, parlano gli stessi nostri dialetti e tifano per le stesse squadre di calcio per le quali tifano i loro coetanei. Italiani a tutti gli effetti ma costretti a vivere in un limbo di diritti perché non riconosciuti dallo Stato.

Eppure basterebbe veramente poco per mettere fine a un’ingiustizia che, come ha ricordato pochi giorni fa il presidente del Coni Giovanni Malagò, consentirebbe anche a tanti atleti di origine straniera di indossare la maglia della nazionale. Sarebbe sufficiente ad esempio evitare che, come è successo con il ddl Zan contro l’omotransfobia, anche la riforma della cittadinanza si trasformi in una battaglia identitaria tra schieramenti contrapposti, come se non bastasse resa più accesa dalla campagna elettorale per le amministrative.

E proprio come per il ddl Zan, i numeri per approvarla ci sarebbero se non ci fossero i soliti distinguo, i se e i ma che da più di un anno la tengono bloccata in Commissione Affari costituzionali della Camera. Al di là infatti delle dichiarazioni di rito, al sì convinto di Pd e LeU e, viceversa, alla scontata opposizione del centrodestra, si sono finora contrapposti i dubbi espressi dal M5S, nonostante il presidente della commissione, il pentastellato Giuseppe Brescia, sia un convinto sostenitore della necessità di riformare l’attuale legge sulla cittadinanza basata sullo ius sanguinis, vale a dire che sei italiano solo se nasci da genitori italiani oppure, nel caso di un ragazzo di origine straniera ma nato in Italia e che vi abbia sempre risieduto legalmente, presentando domanda una volta maggiorenne.

Se alle dichiarazioni di questi giorni seguiranno i fatti, della riforma si ricomincerà a parlare proprio in Commissione Affari costituzionali dove è terminata la discussione generale e si sono svolte numerose audizioni concluse a marzo del 2020. Tre i disegni di legge dai quali potrebbe uscire un testo unificato. Il primo è dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini e prevede il riconoscimento della cittadinanza a «chi è nato nel territorio della repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno è regolarmente soggiornante in Italia da almeno un anno al momento della nascita di un figlio», ma anche a «chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui almeno uno è nato in Italia». Chi invece arriva nel nostro Paese entro il decimo anno di età, e vi soggiorna legalmente fino al diciottesimo, può chiedere di diventare cittadino italiano entro i due anni successivi al raggiungimento della maggiore età. Il ddl prevede inoltre la possibilità per un ragazzo di diventare cittadino italiano al temine di un ciclo completo di studi, il cosiddetto ius culturae.

Totalmente basato sullo ius culturae è invece il secondo ddl presentato, in dissenso con il suo partito, dall’azzurra Renata Poverini. Può chiedere di diventare cittadino italiano il minore straniero che abbia concluso un ciclo di scuole primarie. Oppure, se nato in Italia, a condizione che al momento della presentazione della domanda risieda da almeno tre anni legalmente i Italia.

Infine il disegno di legge a firma del dem Matteo Orfini, un mix tra ius culturae e ius soli «temperato»: un bimbo nato in Italia può diventare cittadino se almeno uno dei genitori vi risieda legalmente e senza interruzioni da almeno cinque anni o sia in possesso di un permesso di soggiorno di lungo periodo. I minori nati in Italia, o che vi siano arrivati entro il dodicesimo anno di età, possono infine diventare cittadini al termine di un ciclo di studi della durata minima di cinque anni.