L’occupazione femminile cresce in Italia: spiega l’Istat che la percentuale di donne che lavorano ha raggiunto lo scorso giugno il 48,8%. Il risultato più alto da quando sono cominciate le serie storiche, nel 1977. La sottosegretaria alla presidenza del Consiglio, Maria Elena Boschi, ha esultato: «Qualcuno può ancora negare il successo del Jobs act?». Il segretario del Pd, Matteo Renzi, ha scritto nella sua enews del 31 luglio: «Il Jobs act funziona. E finalmente non lo mette in dubbio più nessuno».

Eppure il dato non dovrebbe suscitare troppo entusiasmo visto che la media europea è del 65,3%: si va dal 70% della Germania al 55% della Spagna. Il segmento che ha avuto la crescita maggiore di posti di lavoro è quello tra i 55 e i 64 anni (in tre anni è aumentato del 23%). Infine, oltre due terzi dell’aumento riguarda contratti a tempo determinato, mentre i contratti a tempo indeterminato risultano stabili. Chiara Saraceno su Repubblica ha attribuito il dato all’effetto della riforma delle pensioni targata Elsa Fornero e non al Jobs Act, visto anche l’assenza di crescita del tempo indeterminato. Francesca Re David, segretaria generale della Fiom, sottolinea un altro aspetto: «Si tratta di un tipo di lavoro così precario e sfruttato che, in questo senso, è un effetto del Jobs act».

Re David, come vanno letti i dati sull’occupazione femminile?
Dal Jobs act in poi la crescita degli assunti riguarda quasi sempre gli ultra cinquantenni. La disoccupazione giovanile è la più alta in Europa dopo la Grecia. La riforma del lavoro voluta da Renzi ha reso i licenziamenti più facili, una tendenza cominciata con l’articolo 18 della riforma Fornero: chi ha perso il posto o vive in una famiglia a rischio povertà, visto anche quanto poco viene pagato il lavoro operaio, ha scelto di accettare qualsiasi offerta, anche con paghe bassissime. E poi l’Istat inserisce nel calcolo anche chi ha lavorato solo un’ora nella settimana della rilevazione. Possiamo considerarla occupazione?

La crescita riguarda soprattutto i contratti a termine
Il dato riguarda le forme di lavoro che hanno un termine, cioè anche tipi di occupazione meno strutturati rispetto ai contratti a termine in senso stretto, che includono condizioni di lavoro migliori e maggiori diritti sindacali. Si tratta, in molti casi, di lavoro poverissimo. La crescita sbandierata a giugno arriva dopo un mese di maggio in negativo. La prova del nove ce la dà l’inflazione che non cresce, questo vuol dire che le famiglie non spendono perché ancora inchiodate dalla crisi, preoccupate della sussistenza. Le donne, poi, tradizionalmente occupano posti nel terziario e nei servizi alla persona, un segmento fortemente svalutato dal punto di vista dei compensi.

Nel terzo trimestre del 2016 il tasso di occupazione femminile al Nord era del 57,8%, in linea con l’Europa, mentre al Sud era fermo al 32,3%. Una tendenza che sembra proseguire

I dati nel Mezzogiorno sono drammatici. Per cominciare, la disoccupazione giovanile è più alta di quella greca. In Italia le donne guadagnano comunque meno degli uomini ma al Sud si attestano su redditi bassi anche in virtù di una minore scolarizzazione, con un tasso di laureate più basso rispetto al settentrione. Al Nord reggono i grandi gruppi ma l’economia è comunque ferma perché manca una politica industriale. I finanziamenti a pioggia, voluti dal governo Renzi, non servono a invertire la rotta: i soldi vanno dove ci sono i soldi. Così il Mezzogiorno, e le donne, restano bloccati.