Il dieci giugno 1899 Ernest Chausson moriva sul colpo, a soli quarantaquattro anni, per una banale caduta dalla bicicletta. Al mondo musicale rimase l’interrogativo sui possibili sviluppi di una parabola artistica troncata nel momento di massima ascesa. Eseguita postuma nel 1903, le Roi Arthus resta l’unica opera di Chausson, alla quale il compositore, autore anche del libretto, lavorò per circa dieci anni, dal 1886 al 1895. Anche la produzione parigina in scena fino al 14 di giugno all’Opéra Bastille non può celare il paradosso della ricerca spasmodica di un linguaggio alternativo a Wagner, che si risolve in un’opera totalmente pervasa di wagnerismi: sia nella struttura drammaturgica ( l’amore illecito di Lancelot e Geniévre, risolto con la morte dei due amanti, nonostante il perdono del re) che nella scrittura orchestrale e vocale ( specie nei duetti fra Geviévre e Lancelot, plasmati su quello di Tristano).

 

 

Indubbiamente l’opera di un epigono, ma ricca di fascino musicale, specie dove si tentano innesti di una più distesa espansione lirica di gusto francese, come nel terzo atto, con la grande aria di morte di Geniévre e la scena del perdono di Arthus all’agonizzante Lancelot.

 
Forse un clima così morboso e estetizzante, ma certo non innervato da un secolo e mezzo di dibattito nella vita musicale, culturale e filosofica come per le creazioni di Wagner, avrebbe beneficiato di una messa in scena meno intellettualizzante di quella voluta da Graham Vick, considerate anche le rare presenze dell’opera in teatro. La regia rinnega ogni illusione neo-medievale, giocando invece il rapporto fra i personaggi e anche la scenografia (immensi poster di britannica natura verdeggiante e un appartamento borghese, distrutto atto dopo atto) sul tema dell’onore e della rispettabilità ottocentesca.

 
Difficile risultare pienamente credibili in un simile contesto, per di più in abiti alla Top Gun, anche per artisti dotati di forte presenza scenica, come Thomas Hampson, Arthus di vocalità ancora salda nonostante la parte massacrante. Anche Roberto Alagna, qualche forzatura a parte, è venuto a capo del martellante declamato, esibendo come Lancelot un magnifico fraseggio e la maliosa dizione francese per cui è giustamente famoso. La più a fuoco sul piano vocale, Sophie Koch, risultava meno efficace sul piano scenico, ma ritrovava credibilità nel terzo atto ( il miglior sul piano musicale e anche per le le scelte registiche, fra sangue e fiamme) nella scena della morte, nonostante il vestitino bianco e i sandaletti rubati a un film di Rohmer.

 

 

Orchestra e coro hanno assecondato la lettura accesa ma senza eccessi di magniloquenza di Philippe Jordan, fresco di rinnovo di contratto alla guida del massimo teatro parigino. Grandi campiture orchestrali dunque, ma anche attenzione ai dettagli e alle preziosità sonore, specie negli interludi strumentali, in cui si ode più di qualche eco del Poème de l’amour et de la mer, ciclo sinfonico-vocale cui resta oggi affidata la fama di Chausson. Teatro pieno e grandissimi festeggiamenti per i tre protagonisti e i direttore, ma anche per il bravo Alexandre Duhamel ( il cattivo Modred) e sopratuttto per lo scudiero di voce luminosa di Stanistlas de Barbeyrac.