Sono state migliaia le manifestazioni di appoggio e di solidarietà che sono arrivate dopo il tentativo dei nazifascisti – di oltre una settimana fa – di interrompere via zoom la presentazione del mio libro La generazione del deserto. Un libro in cui si parla di storie e memorie della persecuzione antiebraica ed anche di cosa fare ora del nodo irrisolto della Shoah nella coscienza contemporanea, nella riflessione individuale e collettiva. Dopo l’attacco, intrusivo e violento, è stato importante vedere emergere il volto partecipe della società. Una solidarietà non solo personale ma anche civile e politica. Una solidarietà che ha visto il web e i social protagonisti ancora una volta.

E non si è trattato solo di abbracci virtuali sulle bacheche personali e famigliari ma di una risposta, per lo più individuale, oltre le istituzioni e la politica. Un preside ha postato una foto mentre leggeva il libro e il commento: «Non vedo altra risposta alle miserie culturali» e adesso ha organizzato delle attività nella scuola di cui è dirigente. Fare un cenno ai contenuti degli altri messaggi rassicura sullo stato di salute della società civile: «Solidarietà e indignazione non bastano ma sono indispensabili». «Qualsiasi persona che non si commuove e non si arrabbia è connivente!». «Ignoranza e odio, mai arrendersi», «No pasaran», «Non ci sto», «Vergogna», «Mi riguarda».

In alcuni messaggi il collegamento con il passato è forte: «Noi siamo qui, stavolta». Come a dire che «l’altra volta» – durante gli anni del fascismo, della democrazia conculcata, dei tribunali speciali, della guerra, delle persecuzioni dei diritti prima e delle vite poi – erano in tanti «a non esserci». Certo, non sono mancati coloro che, dopo l’esordio «ho tanti amici ebrei», hanno cercato di depotenziare il senso di quanto accaduto: eppure è stata un’incursione in stile squadrista adeguata ai nuovi mezzi e alle nuove tecnologie.

Si sostiene, in quel caso, che tutto sommato non è stata una cosa così grave, eppure lo zoom-bombing è tutt’altro che una bravata condotta da ragazzini che non hanno nulla da fare. È dall’autunno scorso che si presenta piuttosto come la declinazione di un’intolleranza variamente articolata contro ebrei, immigrati, donne, omosessuali. Ma è accaduto anche all’open day via zoom di una scuola elementare con immagini pedo-pornografiche di fronte a genitori e bambini allibiti. Fino ad ora se ne è parlato poco e – a volte – le stesse vittime hanno evitato di darne notizia con l’intento di evitare gli emulatori. Eppure le iniziative colpite sono numerose: incontri di donne, il fronte degli immigrati e dell’assistenza, organizzazioni Lgbtq, incontri sulla Resistenza, solo per fare alcuni esempi. E riguarda eventi organizzati in tutta Italia: da Genova alla Val di Susa, da Perugia a Brescia.

Ad occuparsi di zoom-bombing è la Rete nazionale per il contrasto ai discorsi e ai fenomeni di odio che, nella sua pagina Facebook, propone delle linee guida in dieci semplici punti che ha avuto migliaia di visualizzazioni: «aiutateci a fare rete contro l’odio e la violenza on line».

Il discorso d’odio è così diffuso, pervasivo ed elusivo che anche la definizione è complessa, a offrirne una è il Consiglio d’Europa che nel 1997 scrive: «deve essere inteso come l’insieme di tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, sviluppano o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo ed altre forme di odio basate sull’intolleranza». Le modalità sembrano iniziare a delinearsi: «Abbiamo definito lo zoom-bombing come la nuova frontiera dell’odio in rete – spiega Federico Faloppa, linguista e coordinatore della Rete di contrasto che riunisce università, sindacati, associazioni, ong, giornalisti e ricercatori unitisi per monitorare e contrastare l’hate speech – è come un’aggressione vera e propria che tenta di silenziare l’altro non solo attraverso l’insulto al singolo ma che colpisce deliberatamente l’agorà, il confronto civile. L’obbiettivo è silenziare l’altro, colpire proprio il momento di confronto democratico, utilizzare l’aggressività per togliere spazio al confronto civile».

L’ipotesi che in buona parte dei casi queste azioni siano organizzate da militanti dell’estrema desta è una supposizione che ha riferimenti concreti. Il fatto – piccolo solo in apparenza – è che è possibile per gruppetti di sei o sette persone introdursi dentro incontri pubblici ed inneggiare al Duce o mostrare svastiche. E c’è addirittura chi lo rivendica – senza nemmeno rendersi conto del paradosso – in nome della libertà di parola. Eppure, come scriveva Alessandro Portelli su queste pagine («Dentro il cuore di tenebra», l’8 gennaio 2021 a proposito dell’assalto a Capitol Hill), liquidarli dicendo che sono solo bravate di un piccolo settore di estremisti è rischioso e autoassolutorio: «Parlare di bifolchi e di barbari serve solo ad esorcizzarli, allontanarli da noi, a rifugiarci nei pregiudizi (…) come se noi colti progressisti democratici non avessimo responsabilità per quello che è successo e se le pulsioni che si sono scatenate a Washington non attraversassero in altre forme tutta l’Europa». Lo zoom-bombing degli anonimi fascio-imbecilli è piccola cosa a confronto purché non nasconda malcontento e malessere veicolato da parole di odio già legittimate nel linguaggio pubblico.

Siamo in prossimità del 27 gennaio – il giorno della memoria in cui si ricorda la liberazione del campo di sterminio di Auschwitz – sono venti anni dalla sua istituzione ma farne o meno un’occasione di retorica che si limita a replicare sé stessa sta solo in chi lo celebra. Ci sono molte altre possibilità di ragionamento e di collegamenti. Anche tra il fascismo di allora e le anonime parole di odio di oggi. Grazie a coloro che invece hanno scelto di metterci, insieme alla solidarietà, faccia e firma. Anche questo è il potere dei social.