Un’opera in tre volumi, di oltre mille pagine, pubblicata da Skira, che non ha equivalenti nella pur ricca storiografia sull’architettura del Novecento; l’autore è Roberto Gargiani, professore di Storia dell’architettura all’École Polythecnique di Losanna: Razionalismo retorico per il regime fascista 1914-1944 (pp. 493, ill. b/n, euro 28,00), Razionalismo emozionale per l’identità democratica nazionale 1945-1966 (pp. 592, ill. b/n, euro 28,00), Razionalismi esaltati nostalgici radicali 1967-1973 (pp. 166, ill. b/n, euro 14,00). Per tutti e tre i tomi il sottotitolo è Eretici italiani dell’architettura razionalista.
La trattazione parte dal 1914: una data storica, ma a Gargiani non interessa l’inizio della Prima guerra, si sofferma piuttosto sulle nuove Officine Fiat: il Lingotto, 1914-’28, opera di Giacomo Matté-Trucco (un funzionario dell’azienda), letta quale «prologo alla mistica dell’ossatura», come titola il primo capitolo del primo tomo, a cui segue «la materia intellegibile» di Edoardo Persico. Un incipit classico e significativo: una grande opera di ingegneria e il più geniale critico di quella stagione, che muore a soli trentasei anni nel 1936 e fu il primo lettore acuto di quella fabbrica quando scrisse un articolo su «Motor Italia», rivistina dell’azienda dove faceva lavori di pulizia. Ma il Lingotto, grande nave di cemento proiettata verso il futuro, già aveva affascinato il giovane Piero Gobetti, a cui Persico era molto legato, e poi Antonio Gramsci. Naturalmente Le Corbusier si fece una passeggiata in auto sulla futuristica pista soprelevata del tetto del Lingotto.
Non a caso ho detto futuristica, perché il movimento ebbe un architetto di geniale talento come Antonio Sant’Elia, morto al fronte nel 1916. I suoi disegni sulla Città Nuova, presentati alla mostra di Nuove Tendenze, 1914, non sono progetti in senso proprio, non hanno una scala o una pianta, sono una prefigurazione della città ideale della modernità: grattacieli di cemento e cristallo, protesi su stazioni ferroviarie, ma anche colossali cattedrali che strizzano l’occhio alla Secessione viennese. Furono, quei disegni, il segno dell’onnipotenza di Filippo Tommaso Marinetti e del suo movimento futurista, per il quale l’architetto comasco scrisse il Manifesto per l’architettura. Assai più creativo quello scritto da Umberto Boccioni, morto anche lui al fronte, per una caduta da cavallo. La città che sale è un dipinto che prefigura lo spazio di una tumultuosa metropoli. Ma Boccioni, per non interferire con il testo dell’amico Antonio, se lo tenne in tasca, il suo manifesto per l’architettura, e venne alla luce per caso tra le sue carte assai dopo la morte di entrambi. Nella compagine futurista il luganese Mario Chiattone progettò case per abitazioni con piante e sezioni, ma senza l’ardore visionario di Sant’Elia, ai cui disegni a piene mani attinse Le Corbusier che mai lo citò. Virgilio Marchi, in ambiente romano, disegnò e dipinse città e architetture vivaci, ma le sue erano solo scenografie.
Gargiani, con passo da maratoneta, segue ogni tappa: il Novecento di Giovanni Muzio e altri, con la Ca’ Brutta, 1919-’22, primo condominio milanese a scala urbana; la piccola Casa della Meridiana, 1924-’25, di Giuseppe De Finetti, che non guarda alla Secessione ma all’alter ego Adolf Loos che aveva conosciuto. Il paradigma dell’ossatura e del cemento armato è un doppio filo conduttore lungo il quale troviamo ponti e viadotti costruiti per il Paese. Fino all’acme dello Stadio Berta a Firenze, 1930-’33, di Pier Luigi Nervi, sul quale di recente incombevano minacce di una selvaggia ristrutturazione, per fortuna sventata: «ingegneria bruta», definì lo stadio Giuseppe Pagano su «Casabella», rivista che tanto posto ha con il suo direttore in questa storia.
Per avere una risposta linguistica in senso proprio bisogna giungere al Gruppo 7 di Luigi Figini, Gino Pollini e del comasco Giuseppe Terragni, che con il Novocomum, la Casa del Fascio, e ancor più con l’Asilo Sant’Elia e la Mostra del Decennale della Rivoluzione Fascista diviene il vero erede della breve ventata futurista, che fu nondimeno l’unica porta aperta in Italia verso la modernità. L’ossatura della Casa del Fascio fino al progetto del Danteum sono il segno più alto del «razionalismo retorico per il regime fascista»: ma Argan scrisse che quella Casa del Fascio può essere benissimo letta come una Casa del Popolo, e aveva mille ragioni. Giovanni Michelucci e il suo gruppo costruirono la Stazione di Firenze di Santa Maria Novella, 1933-’35, una delle più belle stazioni del secolo, dopo un concorso che fu causa di una querelle che giunse in Parlamento: la risolse con il suo sostegno Marcello Piacentini. I giovani razionalisti sperarono che fosse venuto il loro momento, ma fu un’illusione: l’Accademico d’Italia divenne il campione della più bieca retorica fascista.
Il paradigma di grigle, reticoli, ossature trova in Persico, Marcello Nizzoli, Luciano Baldessari, Terragni, BBPR, Figini e Pollini, Pagano, Nervi i loro interpreti. L’Università Bocconi di Pagano, 1937-’41, è tra le prove più alte di questa stagione. Dal 1934 al 1940 a Figini e Pollini Adriano Olivetti commissionò la sua nuova fabbrica a Ivrea, il piano per una quartiere residenziale e lo splendido asilo-nido. Conviene dire che Olivetti, morto a soli sessantadue anni, proseguì nel dopoguerra il suo ruolo di committente illuminato, e nel suo giro si trovano quasi tutti i maggiori architetti italiani. La sua figura si staglia nel secolo e compone un’Italia a tutto tondo che giunse a Pozzuoli con la sua fabbrica aperta sul golfo, 1951-’55 (la progettò in modo magistrale Luigi Cosenza, con Porcinai per i giardini) e con il sostegno per un piano di recupero dei Sassi di Matera.
In un mio libro del 1972 feci riemergere Baldessari, architetto sommerso: aveva costruito solo magnifici padiglioni per fiere (se ne avvide subito Raffaello Giolli, un critico di punta da associare ai suoi amici Persico e Pagano). Perché? Perché Baldessari era tra i pochi non iscritti al Fascio, come Persico e De Finetti che poté costruire solo una bella villa sul Ticino per la famiglia Crespi. Lo spirito anarchico di Baldessari l’indusse nel 1939 a emigrare negli Sati Uniti. Quando rientrò in Italia ebbe la stessa sorte: solo splendidi padiglioni per fiere e allestimenti di mostre con Lucio Fontana. L’unico edifico per abitazioni lo costruì a Berlino su invito dell’amico Walter Gropius.
Qui conviene aprire una parentesi: ho sempre sostenuto che tra architettura e arti visive c’è stata nella prima metà del Novecento una stretta relazione: del Futurismo s’è detto, ma le mute città dipinte da Giorgio de Chirico influenzarono profondamente la compagine di Novecento; così come le drammatiche periferie di Mario Sironi restano lo specchio più inquietante di una società malata. Terragni fu molto vicino al gruppo degli astrattisti comaschi quali Rho e Radice ma anche a Sironi «pittore in camicia nera»,che nel dopoguerra divenne comunista (come tanti) ma rimase un emarginato. La sua vicenda è speculare a quella di Terragni: architetto fascista, con il padre federale di Como, fece la campagna di Russia e al rientro era come impazzito per quanto aveva vissuto. Come racconta Giolli andava a chiedere scusa casa per casa. Aveva capito cosa fosse il fascismo, ma non poté divenire comunista come il suo amico Sironi.
C’è una continuità tra regime fascista e Italia repubblicana: il caso esemplare fu Marcello Piacentini, che disseminò la penisola di edifici «retorici» nel senso peggiore e di piani regolatori, fino al Palazzo dello Sport per le Olimpiadi del 1960 che rivestì con una bolsa corona di vetro la spettacolosa struttura di Nervi. Ma la continuità si riconosce anche nei razionalisti: tant’è che il primo numero di «Casabella» nel dopoguerra, curato da Franco Albini, è interamente dedicato a Giuseppe Pagano fascista, antifascista e martire morto a Gusen. Il primo direttore di «Casabella» in questa stagione fu Ernesto Nathan Rogers, ebreo fuggito in Svizzera, che non a caso aggiunse un trattino e la parola «continuità» alla testata. In quegli anni erano emersi molti architetti che andavano per una linea linguistica ispirata al Bauhaus, a Le Corbusier, al modernismo olandese di De Stijl: Albini in sintonia con Pagano, Gardella, Figini e Pollini, BBPR, Mollino, sul fronte settentrionale; Mario Ridofi con il tedesco Frankl (vena espressionista), Mario De Renzi, Vincenzo Sabbatini, Luigi Moretti a Roma; l’isolato Luigi Cosenza a Napoli. Tutti costoro avranno un ruolo centrale nell’architettura «per l’identità democratica nazionale».
Il primo paragrafo del secondo tomo è dedicato a Nervi e come pendant all’opera d’ingegneria di Riccardo Morandi, Carlo Cestelli Guidi, Giuseppe Rinaldi e Silvano Zorzi che costruirono, non solo in Italia ma in tutto il mondo, dighe e ponti. Grignani fa anche storia della storiografia e dedica un lungo capitolo a quanti hanno scritto di Morandi e Nervi: da Argan a Brandi a Zevi. Nel dopoguerra, ecco le figure asimmetriche di Giovanni Michelucci e Ludovico Quaroni con le loro chiese così diverse. Michelucci: la simpatetica architettura per abitazioni e banche nel centro di Firenze o di Pistoia, città michelucciana per antonomasia, fino al travolgente «a solo» della Chiesa di San Giovanni Battista sull’Autostrada del Sole, 1960-’64, segno di una svolta linguistica radicale.
Si è rotta la schiacciante egemonia di Milano, ma qui un romano fascista non reo confesso come Luigi Moretti riparte con la Casa-Albergo 1946-’53, poi rivede a Roma il modello della palazzina, fino alla Villa «La Saracena» a Santa Marinella, che è il segno di una frequentazione con l’architettura organica e Frank Lloyd Wright, giunti in Italia sulle ali di Bruno Zevi. Questi, figura centrale con Storia dell’architettura moderna, 1950, dà il là a un organicismo senza grandi frutti a prescindere da Marcello D’Olivo; poi il controcanto della Storia, 1960, di Leonardo Benevolo. Nella storia della storiografia di Gargiani non mi pare abbiano il posto che meritano.
In ambiente romano tornano Ridolfi e Frankl per edifici Ina-Casa a Cerignola, a Roma Viale Etiopia, a Terni. Gli edifici residenziali di Mario Fiorentino sono sulla stessa strada. Un capitolo è dedicato alle torri moderne nella città storica: il grattacielo Pirelli (struttura di Nervi) di Gio Ponti, figura di grande professionista a tutto campo a partire dal Palazzo della Montecatini, 1935-’38, «totem del capitalismo industriale», dice Gargiani. Al Pirellone fa da controcanto la Torre Velasca dei BBPR, interpretazione geniale delle antiche torri medioevali. Anche Michelucci costruisce un grattacielo a Livorno, ma è un’altra lingua.
L’Italia vive il suo miracolo economico e il nord-est è la punta di diamante e Gino Valle ne diviene il maggiore interprete: la Fabbrica Zanussi a Pordenone, 1957-’61, ne è il manifesto. Con le forme del béton brut. Movimento analogo è coniato da Reyner Banham con Vittoriano Viganò e il Marchiondi a Milano, Luigi Carlo Daneri con le sue abitazioni a Genova, le tante fabbriche di Marco Zanuso, per altro straordinario designer e incipit del trionfo dell’Italian Style.
Gargiani il tema «design» lo tratta di striscio. Il talento di Carlo Scarpa, architetto, designer e restauratore del Castelvecchio di Verona, spicca. Il suo nome apre una parentesi sul ruolo che ebbero Albini a Genova con il Tesoro di San Lorenzo, Palazzo Bianco e Rosso, a Milano Gardella (con la Gam) e i BBPR (col Castello Sforzesco), Michelucci a Firenze: tutti grandi allestitori e restauratori di monumenti antichi. Perché la tutela delle nostre città storiche diviene programma architettonico di primaria rilevanza. Gli architetti italiani, qui, sono maestri incontrastati nel mondo.
Con il Piano regolatore di Assisi il torinese Giovanni Astengo pone le basi di una grammatica fondativa per l’urbanistica, Leonardo Benevolo allestisce piani di restauro urbanistico con progetti pioneristici per Bologna, Venezia e Roma. Saverio Muratori a Roma pone le basi di una metodologia che ebbe il suo credito nella scuole d’architettura. E a proposito di scuole un ruolo fondamentale ebbe il siciliano Giuseppe Samonà, come Rettore dello IUAV di Venezia. Samonà chiamò in Laguna alcuni tra i maggiori architetti italiani che non avevano trovato posto al Politecnico di Milano e alla Facoltà di architettura di Roma, dove continuavano a far da padroni vecchi arnesi del ventennio fascista. Farne l’elenco sarebbe tedioso.
Per la sua attività di architetto vale ricordare la Centrale elettrica di Termini Imerese e il ruolo di alter-ego di Carlo Scarpa a Venezia: entrambi maestri di tanti architetti che fecero strada. Alcuni li troviamo nel terzo volume con una titolo criptico: «razionalismi esaltati, nostalgici radicali». Tra i primi Giorgio Grassi e Aldo Rossi, cui va la spiccata simpatia dell’autore. Rossi è un caso molto particolare: fu autore di alcune architetture a partire dal Cimitero di Modena con Braghieri, alcune residenze a Berlino: opere di contenuta proprietà linguistica di razionalista «esaltato», ma il Gallaratese a Milano è un’icona razionalista dal punto di vista edilizio assai deludente. Il ruolo di Rossi si esalta nella sua grammatica dell’architettura, che ebbe un successo internazionale come di rado è accaduto per un architetto italiano se non si vuol risalire a Sant’Elia. Fu il primo italiano a cui fu assegnato il Premio Pritzker (una sorta di Nobel per l’architettura) nel 1990, secondo è stato Renzo Piano nel 1998: c’è da stropicciarsi gli occhi! Rossi diede forse il meglio di sé nella grafica.
La stagione 1967-’73 è ricca di nomi nuovi e di straordinari tramonti: è il caso di Michelucci con la chiesa di Longarone, di Gino Pollini (associato a Vittorio Gregotti) con i Dipartimenti di Scienze a Palermo, di Luigi Moretti con la Chiesa del Concilio per un quartiere periferico di Roma, che è un’autentica rivoluzione del suo linguaggio razionalista.
Nelle ultime pagine Roberto Gargiani tira le fila di questa cavalcata lungo i decenni con una scrittura di cui si apprezza sobrietà e chiarezza, e con rimandi bibliografici senza risparmio: ha scritto un’opera magistrale con il doppio sguardo dell’Angelus Novus di Walter Benjamin, vòlto verso un futuro che guarda al passato.