La ragione per cui ancora oggi in Argentina si commemora il documentarista porteño Raymundo Gleyzer è per la caparbietà e forza d’animo che lo contraddistinsero durante la sua breve carriera fin da quando, poco più che ventenne, decise di partire per il Brasile per girare il suo primo documentario, insieme a una ristretta troupe composta da colleghi della scuola di cinema.

In Brasile
Il gruppo era diretto verso la regione del sertão, in una zona chiamata «triangolo della fame»: un’arida regione del nord-est, rinomata per aver dato i natali al grande regista brasiliano Glauber Rocha e fonte d’ispirazione per la scelta del nome del manifesto del nuovo cinema brasiliano: Uma Estetica da Fome (Per un’estetica della fame). La regione in cui si sarebbero svolte le riprese era abitata da una popolazione analfabeta per il 75%, la cui aspettativa di vita era di 28 anni per gli uomini e di 32 per le donne, e che era costretta a lavorare fino a cinque giorni settimanali senza retribuzione.

La Tierra Quema
Gleyzer lavorava ad un progetto intitolato La tierra quema (La terra brucia, 1964) e che riprendeva a piene mani dal bacino di ricerca proposto dal regista brasiliano. La sensazione di bruciore è percepibile ancora oggi fin dalle prime battute del film, che si apre con panoramiche orizzontali di ampissimo respiro: ripercorriamo le aspre terre padronali, partecipiamo ardentemente al desiderio di rivalsa e di riscatto della madre che raziona la poca acqua rimasta per le troppe bocche da dissetare, il tutto impresso su una pellicola impoverita dal bagliore accecante e insostenibile del sole nelle ore più calde.

Colpo di stato
I cineasti vengono però scossi da un avvenimento epocale non solo per il Brasile, ma per l’intero continente: il colpo di stato del generale Castelo Branco nella notte del 31 marzo del 1964 a discapito del governo democratico del presidente João Goulart. Il colpo di stato di Branco fu solo il primo di una lunga serie di capovolgimenti in tutto il continente, dalla Bolivia all’Argentina, l’Ecuador, l’Uruguay e il Cile: si trattava di un piano di repressione dei governi socialisti che solo nel 1975 prese formalmente il nome di Plan Condor. La troupe, venuta a conoscenza della burrascosa situazione politica, discusse sul da farsi giungendo a decisioni diametralmente opposte: il coregista Jorge Giannoni insieme al resto del gruppo decidono di far ritorno in Argentina, mentre Raymundo rimane in Brasile per portare a termine il progetto, nonostante i tentativi di sequestro del materiale – e di persona – fino al giorno stesso del ritorno verso casa.

L’esperienza brasiliana fu rivelatrice per il giovane regista, che da quel momento in poi decise di dedicare tutti i suoi sforzi alla realizzazione di un progetto latinoamericanista (come disse Pineda Franco), secondo il quale in tutto il continente si sarebbe dovuto proporre il metodo che dieci anni prima aveva contraddistinto l’esperienza rivoluzionaria cubana (gennaio 1959): ripartire da un legame solidale e socialista dei popoli dell’America Latina poiché la loro storia era accomunata da secoli di sfruttamento e colonialismo europeo.

Birri
Un altro momento fondamentale nella vita di Gleyzer fu il giorno in cui ricevette la lusinghiera lettera di complimenti da parte di Fernando Birri, mentore del cinema documentario e sociale latinoamericano. Birri studiò a Roma dove frequentò il Centro Sperimentale, lavorò insieme a Zavattini e tornò in Argentina dove fondò una scuola di cinema documentario. Fu il regista di quel Tire Dié (1959) che Fernando Solanas e Octavio Getino sostennero essere stato il lavoro che più li influenzò per  La Hora de los Hornos (1968), oltre al lavoro di Hugo del Carril dei primi anni ’50, Las aguas bajas turbias, di chiara ispirazione neorealista. Le parole di Birri inorgoglirono enormemente Gleyzer, che gli rispose con una lettera altrettanto lunga e che terminava così: «È vitale, nella mia carriera di giovane cineasta affrontare il problema della Liberazione dell’America Latina».

Raymundo, cittadino e regista militante, sapeva fin troppo bene da che parte stare. In quegli anni a Buenos Aires, nei sindacati, nelle università, nelle case del popolo operaie e studentesche si discuteva di politica, di cultura nazionale e di cinema, erano numerosi i dibattiti sull’oppressione e sull’occupazione, su Fanon e sull’imperialismo: ci si chiedeva come fare cinema e come far politica, se dare precedenza alla forma o al contenuto… Se fosse giusto sfruttare un circuito nazionale, o se, come dice Godard, un lavoro politico poteva definirsi tale solo se anche il modo in cui veniva prodotto era politico.

Sono tematiche che da sempre animano il dibattito sul cinema politico e militante. Temi che a quei tempi non trovarono risposta e che ancora oggi, nel cinema post-pandemico del 2021, mutano continuamente significato assumendo sfumature eterogenee.

Cine de la base
Raymundo assiste nel 1966 all’ennesimo colpo di stato in Argentina, meno prorompente di quello del 1955 con il bombardamento della sede centrale del governo (come a Santiago nel ’73 quando si bombardò il palazzo del governo de La Moneda e si destituì il presidente Allende), ma anticipatore di quanto sarebbe successo dieci anni dopo con la presa del potere da parte di Videla. Raymundo in quegli anni militava con il gruppo del PRT – Partido Revolucionarios de los Trabajadores, fondò il collettivo Cine de la Base, ma a causa delle repressioni, ormai giornaliere, fu costretto ad allontanarsi nuovamente, questa volta verso gli Stati Uniti.
Il regista avrebbe fatto ritorno nel ’76, venne sequestrato il 27 maggio dello stesso anno e ad oggi il suo corpo non è ancora stato ritrovato. Non aveva ancora compiuto trentacinque anni.