Licenziando nel 1993 il suo saggio seminale Cultura e imperialismo, Edward Said scriveva: «Non occorre sottolineare che molte parti di questo libro sono pervase dalle idee e dall’esempio morale e umano di Raymond Williams». È impossibile, in effetti, sottovalutare l’importanza di Williams per la formazione dell’ideologia contemporanea, non solo anglofona: studi come Cultura e rivoluzione industriale, The Long Revolution o The Country and the City sono divenuti classici della speculazione letteraria e sociologica del secondo Novecento.
Gallese, di origini proletarie e socialiste, alla fine degli anni Cinquanta Williams si impose nel panorama intellettuale del tempo proponendo una concezione della cultura come «intero stile di vita» e, al tempo stesso, «modalità di interpretazione delle nostre esperienze comuni»: uno stile di vita che trovò espressione tanto nelle forme artistiche e letterarie quanto nelle pratiche della quotidianità, le une quanto le altre interpretate come espressioni di «strutture di sentimenti», ovvero manifestazioni di esperienze, ideali, situazioni e valori condivisi da una determinata comunità.

Quasi sessant’anni dopo
Proprio a partire da questa idea non canonica e non codificata di cultura, legata all’usuale piuttosto che all’eccezionale, si sarebbe strutturata la prospettiva dei Cultural Studies, caratterizzati da un orientamento sociologico e da un impegno politico (per lo più di stampo marxista) sino allora inediti in ambito inglese e finalizzati a trasformare l’analisi culturale in indagine sociale.
Tuttavia, mentre i lavori saggistici di Williams sono ancora ampiamente discussi e costituiscono un punto di riferimento imprescindibile per i letterati e gli studiosi di tutto il mondo, i suoi romanzi sono caduti nell’oblio: da tempo scomparsi dagli scaffali delle librerie, raramente se ne fa menzione nelle storie letterarie (mai in quelle italiane), che pure dedicano ampio spazio al suo lavoro speculativo. Nella nostra lingua, fino a oggi si ricordava soltanto una traduzione della saga Il popolo delle Montagne Nere risalente ai primi anni Novanta.

Ora, a distanza di ben cinquantotto anni dall’edizione originale, esce tradotto per la prima volta il suo romanzo d’esordio, Terra di confine (traduzione di Carmine Mezzacappa, paginauno editore, pp. 429, euro  18,00) prima parte di una trilogia il cui protagonista è il professore gallese di storia Matthew Price, nelle origini e nella formazione del quale è facile riscontrare elementi autobiografici. Anche per questa consonanza tra il personaggio principale e l’autore vale la pena scoprire questo lavoro, che cronologicamente sta tra Cultura e rivoluzione industriale – il saggio del 1958 in cui Williams formula il concetto di cultura come way of life – e The Long Revolutioni, del 1961, dove introduce l’idea della structure of feeling, espressione di esperienze comuni e quotidiane di un determinato gruppo sociale.
Centrato sulla difficoltà del reinserimento nella comunità d’origine di un giovane che ha lasciato il Galles rurale per proseguire a Cambridge e Londra il suo percorso accademico, Terra di confine appare come la narrativizzazione delle idee contenute nel saggio del 1958 e l’anticipazione di quelle che troveranno compimento nel lavoro del 1961.

Figlio di un segnalatore delle ferrovie, cresciuto all’ombra dei treni di passaggio in uno sperduto villaggio gallese, Matthew fatica a ritrovarsi nel piccolo mondo da cui proviene quando è costretto a ritornarvi per assistere il padre gravemente malato. La sua lacerazione interiore, la difficoltà di trovare un punto d’incontro tra la sua giovinezza provinciale e proletaria con l’età adulta metropolitana e borghese, trovano espressione nel suo doppio nome: registrato all’anagrafe come Matthew per volere del padre, fin dalla nascita è stato chiamato Will dalla madre e da tutti gli abitanti del villaggio. Come Will è conosciuto al paese, che non ha memoria di Matthew; come Matthew si è fatto strada nel mondo accademico e ha costruito la sua famiglia lontano dal Galles. Per un verso, quindi, il romanzo dà rappresentazione, in primo luogo, al difficoltoso e progressivo ricomporsi di questa personalità scissa, attraverso il recupero di un passato rimosso e, soprattutto, del rapporto con un padre forse mai abbastanza compreso e apprezzato.

Nel racconto del passato, che abbraccia due generazioni – quella del padre e quella figlio – si intrecciano elementi politici e sociali dei primi anni Venti: la situazione del proletariato tra le due guerre; gli scioperi falliti dei minatori nel 1926, con cui solidarizzarono i ferrovieri; le responsabilità dei sindacati; la nascita di un’economia mercantile nel Galles rurale; la situazione del secondo dopoguerra.

Il debito con D.H. Lawrence
Tipica working class novel, Terra di confine deve molto, per ciò che riguarda la descrizione ambientale, all’attenta analisi del rapporto tra uomo e territorio, e alla descrizione degli influssi della natura sull’individuo che si leggono in un classico del genere com’è Figli e amanti di D. H. Lawrence: non a caso, uno degli studi letterari più apprezzati di Williams è dedicato alla letteratura inglese da Dickens a Lawrence. Del resto, proprio negli anni in cui usciva Terra di confine, il romanzo proletario britannico conobbe una rinascita grazie al successo di lavori come Sabato sera, domenica mattina e La solitudine del maratoneta di Alan Sillitoe. Ma il romanzo di Williams ha in più la resa narrativa di una cultura che Gramsci avrebbe detto residuale, di cui mostra le pratiche sociali, i rituali, i conflitti, la vita di ogni giorno: ovvero, le sue «strutture di sentimento».

Ciò che Matthew/Will va cercando non è tanto come recuperare quelle structures of feelings, quanto la possibilità stessa di riconoscerle e apprezzarle, nella sua vita come nel suo lavoro di storico, prendendo «le misure della distanza». Al termine del romanzo, di fronte alla stazione ormai in disuso, che tanta parte ha avuto nella sua infanzia e nella vita di suo padre, Matthew riflette: «La stazione di Glynmawr sta per chiudere, ma io la ricordo com’era quando guardavo la valle dal treno mentre andavo via la prima volta. In un certo senso, ho terminato quel viaggio solo adesso … ora assomiglia alla fine di un esilio. Ma non perché sono tornato indietro».

Verso una cultura rurale
Se da una simile presa di coscienza nasceranno i successivi romanzi della trilogia di Matthew Price – Second Generation e The Fight for Manhood – in uno dei suoi saggi più celebrati, The Country and the City del 1973, Williams stesso si incamminerà sulle orme del suo protagonista, studiando, come lui, la cultura rurale, e rifiutando quindi di assecondare la pretesa scomparsa dell’economia agricola, ventilata da tanti intellettuali progressisti metropolitani.