«In bocca al lupo a colui che voglia essere ruiziano», avvertiva Melvil Poupaud. E in effetti l’excessus mentale/visivo del regista cileno e poi francese (1941-2011), dispiegandosi metaforicamente in labirinti successivi più che in richiami al realismo (se non come trappola) esige un occhio attentamente trasognato, e attitudini al continuo ripensamento del canone in materia di cinema «colto». Datato 1968 (e Pardo d’Oro a Locarno l’anno successivo), «Tres Tristes Tigres» è il primo lungometraggio di Raul Ruiz, che definisce nuovamente le suggestioni del romanzo omonimo del cubano Guillermo Cabrera Infante trasportandole dall’Avana a una Santiago del Cile di apparente attualità (speranza e brutalità della Storia, con Allende e Pinochet, si affacceranno dopo).

Peregrinazioni notturne e rifiuto di posizionamento sociale per un pugno di personaggi (tra cui un uomo che induce la sorella a prostituirsi) estranei sia al proletariato che alla borghesia europeizzata e destinati alla trasfigurazione violenta come inevitabile soluzione esistenziale: tutta qui la breve vague cilena, insieme ad Aldo Francia e Miguel Littin. Ospitato nella quarta sala (virtuale) della Cinematheque Française, Henri (www.cinematheque.fr). Scampata grazie ad un’amica a un tentativo di suicidio – dopo l’ennesima delusione amorosa – la giovane Sandy è trascinata via da Las Vegas alla volta di una comunità di femmine folli che occupa un ranch in pieno deserto, non lontano dal confine col Messico, in totale ostilità nei confronti del maschio.

Anche se superato il rito di iniziazione consistente in una temporanea sepoltura, l’arrivo di Sandy e il successivo ingresso in scena di un certo Bill romperanno l’aggressivo equilibrio delle compagne nude, fino a un tragico epilogo. EÈil 1971, ed è «The Female Bunch» (in Italia «Sesso in faccia», sic…), rarissimo, graffiato, anarchico gioiello di exploitation girato in parte nel famigerato Spahn Ranch californiano (noto ai più per le vicende di Charles Manson e oggi per la miracolosa anti-memoria di «C’era una volta… a Hollywood»), interpretato da Jennifer Bishop, Russ Tamblyn e il povero Lon Chaney Jr., e diretto da quell’Al Adamson, che dal pantheon dei B-movies finì mortalmente vittima di un feroce episodio di cronaca nera. A lui Severin dedica il vertiginoso «The Masterpiece Collection», box set di 32 titoli, tra i quali spicca appunto lo spudorato brio di «Female Bunch».

Ripensando a Riccardo Freda, difficilmente affiorerà immediatamente il ricordo di «6×8/48 (ovvero Tutta la città canta)», pellicola dalla travagliata gestazione, tra il 1943 e il 1945, con protagonista assoluto Nino Taranto, «le più belle armonie cantate da Natalino Otto», e un mood gustosamente svagato proveniente dai fasti del teatro di rivista (sceneggia il regista insieme a Marcello Marchesi, Vittorio Metz, Steno e – non ufficialmente – Fellini). La commedia degli equivoci coinvolge un mite maestro di scuola illusosi di aver ereditato da un parente addirittura una miniera d’oro, nella più triste realtà una scalcinata compagnia teatrale per la quale il defunto si era dissipato. L’umorismo surreale e libertario che lo percorre merita indubbiamente uno «zero in condotta», mentre non lontano è lo spirito invece manifestamente fiabesco di Cenerentola e il signor Bonaventura di Sergio Tofano: peccato che per Freda si trattasse di ’un ignobile canovaccio che aveva soltanto il pregio di essere il primo tentativo di un musical spaghetti’»(Divoratori di celluloide). Offerto in streaming da CinetecaMilano.