Le agenzie di rating si sono un po’ inabissate dalla coscienza collettiva. In realtà non hanno mai davvero abbandonato il campo degli esperti di analisi finanziaria, di specialisti o di studiosi della finanziarizzazione. Ma un po’ a ridosso dello scoppio della crisi, fra il 2007-08 – e forse, ancor di più, in prossimità della crisi dei debiti sovrani fra il 2010-11 – anche una fetta del grande pubblico si era dovuta ingoiare qualcosa su di esse. Si è così appreso che grandi aziende che buttano sul mercato dei titoli (chiedendo soldi in prestito insomma) ricevono un punteggio (rating, appunto) che ne misura l’affidabilità. Il giudizio, naturalmente, influenza il valore dei titoli stessi, in quando ne aumenterà o diminuirà la appetibilità e quindi la domanda sul mercato finanziario stesso. Chi emette tali giudizi sono appunto le agenzie di rating (o di notazione).

Questi soggetti (dai nomi un po’ insoliti quali Standard and Poor’s, Fitch, Moody’s) si è però visto che oltre ad essere pesantemente contigui al mondo degli affari che dovrebbero valutare, con numerosi conflitti di interesse, hanno clamorosamente fallito nelle valutazioni, tanto da dichiarare come affidabile e solvibile aziende che invece sono fallite.. subito dopo (Lehman Brothers, Parmalat ecc.). L’opinione pubblica, comprensibilmente poco ben disposta verso le connivenze che hanno contribuito in buna parte alla crisi, è rimasta poco entusiasta del fatto che le stesse agenzie danno punti agli Stati e ai loro debiti.

Le agenzie di rating tornano a far parlare di sé perché fra tante chiacchiere inconcludenti che ne hanno caldeggiato il ridimensionamento o l’abolizione (un noto rivoluzionario disse per esempio: che «imprimendo un’accelerazione a tendenze che sono già in atto è come dare una spinta a chi è già sull’orlo del burrone. Aggravano la crisi») qualcosa di concreto si è verificato: Standard & Poor’s, accusata di aver falsato le valutazioni dando un punteggio di alta affidabilità a prodotti finanziari in realtà assai rischiosi (i famosi mutui sub prime), ha accettato di pagare 1,5 miliardi di dollari al Dipartimento di giustizia USA e a singoli Stati.

Anche in Italia è successo qualcosa: a Trani due delle più potenti agenzie (S&P e Fitch) hanno dovuto presentarsi alla prima udienza il 5 febbraio 2015 sotto l’accusa di aver manipolato il mercato internazionale fra il 2011 e il 2012, citate in giudizio da una ventina di associazioni fra cui Adusbef. Il ministero guidato da Padoan ha scelto di non costituirsi parte civile.

Il significato di tale azione legale non va sovradimensionato, non sarà certo la procura di Trani a distruggere una delle più solide componenti del capitalismo finanziario. Ma è un passo che riporta a galla questi soggetti che, dopo essere stati criticati da ogni parte qualche anno fa, sono tornati prudentemente sotto traccia per inabissarsi nuovamente nella palude del tecnicismo della finanza. Saldamente inserite nel sistema di potere finanziario le agenzie di rating svolgono la funzione di autolegittimazione dei mercati finanziari e di gestione di processi dalla rilevante incisività materiale al di fuori di ogni autorità o potere democratico, e che anzi arriva a influenzare gli stessi stati in nome della mera razionalità mercatista. I danni derivanti dalle attività in oggetto nel processo a Trani sono state quantificate – sia pur non formalmente – in 120 miliardi dalla Corte dei Conti. E se si aprisse ancora un dibattito sul debito sovrano il loro ruolo sarebbe strategico. Sarebbe proprio il caso di prestare orecchio a chi solo nel 2012 alluse alla necessità di «imparare a vivere senza agenzie di rating». Mario Draghi. Che fa il paio con il noto rivoluzionario sopra citato secondo cui esse «aggravano la crisi». L’allora capo-economista dell’Ocse Pier Carlo Padoan. Quello del Ministero.