Alcune sentenze scrivono la storia. Si pensi allo storico esito del maxiprocesso contro i capi di Cosa Nostra; o alle condanne di Mani Pulite, in specie in merito alla maxitangente Enimont.

Il caso di cui trattiamo non riguarda una sede particolarmente visibile o prestigiosa, né un caso molto noto alla cronaca giudiziaria. Ma vengono messe sotto processo alcune delle entità più potenti del pianeta, pressoché sconosciute ai più fino a pochi anni a e in gran parte anche oggi. Sono le Agenzie di rating (o di notazione, che è però un termine ancora più sconosciuto).

Si tratta di soggetti privati che dovrebbero costituire dei riferimenti di maggior certezza nel mare magnum della cronica instabilità del mondo finanziario. La loro funzione infatti sarebbe di dare delle valutazioni di chi emette prodotti finanziari come obbligazioni: se uno Stato o un’azienda vengono considerati solidi i titoli che emettono costano di meno (gli investitori sono disposti a prestare i soldi con interesse minore perché il rischio di riaverli con il surplus promesso è basso); vice versa chi viene considerato «a rischio» per ottenere dei prestiti sotto tale forma deve promettere molto. In pratica in assenza di una sostanza fisica tangibile, il prezzo dei prodotti finanziari è dato dall’informazione che quantifica il rischio. Si tratti di aziende private o Stati sovrani.

Le agenzie in questione dovrebbero dare una valutazione in tal senso, provvedendo gli investitori di informazioni complete, tempestive, corrette e trasparenti. In pratica, però, questa funzione viene monopolizzata da tre potenti agenzie (Standard & Poors, Moody’s, Fitch) che hanno preso granchi clamorosi garantendo realtà praticamente decotte e sono avviluppate in una massa di conflitti di interesse degna dell’uomo di Arcore. I loro fallimenti sono stati duramente stigmatizzati dalla Commissione d’inchiesta per la Crisi finanziaria del Congresso Usa nel ruolo che hanno avuto nell’innescare la grande crisi globale del 2007-08; ed è stato criticato il loro smodato potere: il fatto che esse diano voti anche ai titoli di Stati sovrani le ha portate di fatto ad influenzarne la line politica. Quindi nella misura in cui esse si identificano in un conglomerato di poteri finanziari rappresentano l’autoreferenzialità del mercato e la sua primazia sulle istituzioni politiche.

Fra tali Stati c’è l’Italia che, come si ricorderà, fra il 2011-2012 ha subito pagelle molto severe sui suoi conti pubblici – fino alla destituzione del governo in carica per essere sostituito dal «sobrio» Monti. Ma qualche cosa che non torna c’è: come anche noi avevamo modestamente segnalato su queste pagine, secondo Bankitalia i conti non andavano così male. Una ventina di associazioni fra cui Adusbef è ricorsa alle procure e il 5 febbraio 2015 è iniziato a Trani un processo che il 20 gennaio scorso ha visto la requisitoria del pm.

Questi non solo segnala che i quattro rapporti che declassano l’Italia fra marzo 2011 e gennaio 2012 sono incongruenti coi dati disponibili agli analisti, ma comunicazioni interne a Standard &Poor’s segnalavano il problema ai vertici senza nessuna correzione di rotta.

Insomma ci sarebbe stata una distorsione intenzionale. Per questo la procura chiede il carcere per l’ex presidente dell’Agenzia e per alcuni analisti, oltre a una multa di 4,6 milioni. Sicuramente sarebbe ingenuo pensare che una sentenza di tribunale metta in ginocchio da sola il finanzcapitalismo in uno dei suoi snodi essenziali ma può essere una svola nella giurisprudenza internazionale: Fitch negli Usa ha patteggiato e un processo analogo a quello di Trani ha avuto luogo recentemente in Australia. La sentenza è attesa a breve, andiamo verso la fine dell’impunità delle Agenzie di rating? Vedremo.