Inoltrarsi nella selva del disegno oggi significa avere a che fare con matite, tavolette grafiche, programmi avanzati ed editoria, ma anche con musica, visual, street art, gif animate, video game o fumetti indipendenti. In una fase storica in cui c’è un’ipertrofia delle immagini, il disegno come arte si avvale di un potenziale multidisciplinare che, malgrado le tecnologie, conserva un cuore artigianale. Allora una delle rassegne più interessanti del settore, sganciata dalle grandi manifestazioni e con gli occhi puntati verso i nuovi fenomeni emergenti e le autoproduzioni, è il Ratatà di Macerata, dal 12 al 15 aprile. Gli ideatori del festival nato nel 2013 si sono ispirati a realtà come il Crack di Roma o al BilBOlbul di Bologna, ma riuscendo a creare un unicum in una provincia che, salita agli onori della cronaca prima per il terremoto e poi per la tentata strage di febbraio, fatica a riprendersi.

Quando gli organizzatori riflettevano sull’edizione 2017, pensarono al tema della perdita della casa. Poi c’è stato il terremoto e molti di loro la casa l’hanno persa veramente, quest’anno è accaduta un po’ la stessa cosa. Nicola Alessandrini, una delle anime del festival e artista che dipinge su grandi pareti esseri antropomorfi, mezzi uomini mezze bestie, ci racconta: «Forse portiamo sfortuna: per il 2018 il nostro focus era rivolto all’immigrazione raccontata con l’autodafé, uno dei cerimoniali più scenografici dell’Inquisizione, dove i condannati indossavano un copricapo a testa di somaro e venivano flagellati, per essere assolti dai propri peccati. Visto quanto poi accaduto, c’è sembrato doveroso scusarci e organizzare per il sabato pomeriggio una grande parata (Paratatà, ndr) dove, in modo autoironico, ognuno chiederà scusa per ciò che è. Una volta abbiamo resistito contro le forze della natura, questa volta contro forze umane negative». Con loro parteciperanno i ragazzi ospitati dal Gus, l’associazione che si occupa dei richiedenti asilo che ha subito diverse intimidazioni. Oltre alla parata ci sarà la mostra più politica, intitolata appunto Autodafé, con opere quasi interamente create per il festival, in cui critica, ironia e ovviamente disegno sono la ferramenta degli artisti – Corea del Sud, Iran, Belgio, Germania e Italia – per riflettere sul significato del peccato nella loro cultura.

Da tenere d’occhio in questa edizione gli spagnoli Isidro Ferrer, Felipe Almendros e il francese Matthias Lehmann, artisti dai tratti riconoscibilissimi. L’illustrazione è un linguaggio popolare, anche se rischia di appiattirsi con l’ipervisibilità: «Capita che appena creato un prodotto venga pubblicato su internet anche in fase di ricerca. Talvolta manca disciplina nel distillare il linguaggio, non si aspetta di avere autonomia ma si ha fretta di riconoscimento mediatico». Il format prevede che gli artisti siano, quando possibile, con le loro opere presenti durante l’intera durata della manifestazione, affinché possano aggirarsi fra le 30 e passa esposizioni e incontrare il pubblico in vari momenti. Negli anni sono passati fra gli altri Sarah Mazzetti, Blexbolex, Igor Hofbauer, Anke Feuchtenberger, Henning Wagenbreth, Stefano Ricci e Gio Pastori (in programma anche quest’anno). Nella scorsa edizione la prima mostra europea di Jesse Jacobs ha attirato il pubblico di tutto il continente, a dimostrare l’interesse per il settore: «La rinascita è generata anche dall’etica professionale delle case editrici che pagano gli artisti o si dichiarano antifasciste. Così oggi chi fa autoproduzione non è più staccato dal mondo, ma è un autore che riesce a interloquire con le case editrici e dall’altra riesce ad autoprodursi i lavori più personali grazie alla tecnologia che non è mai mezzo e fine ma solo lo strumento per velocizzare le varie fasi. Il gesto del polso e della mano restano i medesimi».

Se al principio il festival nacque come un collante fra i creativi che lavoravano in proprio ma senza un reale panorama cittadino, ora punta su riflessioni di più ampio respiro: «È una città in cui funzionano le dimostrazioni artistiche di rappresentanza come Macerata Opera o Musicultura, in cui quasi nulla è nuovo o laboratoriale. Proponiamo invece una forma di cultura in cui torniamo a “sporcarci le mani” con il disegno e i sistemi di stampa artigianale, in contro-tendenza a un ambito artistico contemporaneo votato a creare sempre più distanze». Stessa valorizzazione viene data alla musica con un taglio sperimentale e artigianale, alcune chicche del programma sono i francesi Scarlatti Goes Electro che, coi loro parrucconi da Luigi XII, reinterpreteranno in chiave elettronica a 8 bit la musica barocca di Scarlatti. O Kozmonotosman che propone un folk elettronico di canzoni tradizionali censurate dal governo di Ankara: «Ciò che cerchiamo è un senso figurativo all’interno della musica stessa, non chiamiamo mai il gruppo musicale per la sua capacità tecnica ma quello capace di apportare un valore aggiunto, che sia la teatralità, la comunicazione di un concetto o di una storia».