L’ultimo libro di Elisabetta Rasy – Le indiscrete Storia di cinque donne che hanno cambiato l’immagine del mondo (Mondadori, pp. 252, euro 20,00) – è un vero e proprio sequel. L’autrice, infatti, aveva già pubblicato nel 2019 un altro volume dedicato a figure femminili di rottura, chiamandolo allora Le disobbedienti. Storie di sei donne che hanno cambiato l’arte. Non sono però soltanto i titoli a costituire queste opere come una curiosa narrazione ‘in due tomi’; sono piuttosto le scelte di cronologia, i rimandi interni, il sottile slittamento dei temi e dei tópoi di racconto a edificare un’architettura più ampia, a collegare cioè in uno schema articolato le pagine della prima ai capitoli della seconda.
Se l’uscita precedente censiva profili di pittrici celebri, viaggiando su una cronologia che dal Seicento conduceva fino alla prima metà del Novecento (con il medaglione dedicato a Frida Kahlo), quella attuale si concentra sulle carriere di alcune fotografe, limitando la galleria – e non era una scelta obbligata, basta citare una pioniera della fatta di Julia Margaret Cameron – a interpreti del XX secolo, da Tina Modotti a Francesca Woodman.
Il nesso fra le diverse sequenze è del resto esplicitato nelle pagine d’apertura de Le indiscrete, col ricordo dell’amicizia, del reciproco riconoscimento che legò la Kalho alla pasionaria di origini italiane Modotti, protagonista di una fulgida carriera fra Hollywood e Città del Messico, prima del triste esilio europeo conclusosi in una morte precoce e disperata; mentre uno sviluppo più sottile lega le parabole professionali di Artemisia Gentileschi o Berthe Morisot a quelle, non meno faticose, di Lee Miller o Diane Arbus.
Se il libro del 2019 nominava infatti i suoi capitoli col ricorso a un unico sostantivo, associato di volta in volta a una delle eroine (Coraggio, Irrequietezza, Resistenza, per non citarne che la metà), la raccolta odierna opta per una scelta dicotomica, ripetuta e coerente: dal primo all’ultimo ritratto il lettore è cioè confrontato con coppie di lemmi in opposizione, che in ciascuna biografia alludono a una frattura, a una ‘crisi’ nelle vicende riassunte con grazia dalla Rasy.
Si passa pertanto da La bellezza e la rivoluzione (abbinamento dal vago sapore luxemburghiano, ma che inserito in un racconto dedicato a donne e immagini non tarda svelare un intento polarizzante), a La vergogna e l’orgoglio, arrivando infine a Il corpo e l’anima; mentre a togliere qualsivoglia valore congiuntivo all’«e» ricorrente a mo’ di snodo nel corpo di ogni intestazione, sono sufficienti le vite delle fotografe, passate tutte attraverso spartiacque determinanti, tenute assieme da momenti-cerniera di fragile consistenza.
È certo il caso della Modotti e delle sue molte esistenze, che pure si organizzano attorno al prima e al dopo determinati dall’apprendistato professionale al fianco di Edward Weston; ma lo stesso di può dire per il successo mondano della Miller e della Arbus, liberate entrambe dal giogo scintillante della loro fotogenica apparenza grazie a sconfinamenti progressivi, a slanci coraggiosi. Una medesima osservazione vale poi per la Lange, trasformatasi da specchio sofisticato della high society californiana a cantrice delle masse dolenti, travolte dalla slavina della Grande Depressione; e una descrizione franta non si adatta meno al cammino breve della Woodman, giovane college girl ossessionata a un tratto dalla messa in scena del proprio suicidio.
Simili tournures, districate con lucidità dalla Rasy, si esemplificano d’altronde con costanza in un capovolgimento dello sguardo. Come altrimenti delineare il passaggio dai clic di moda alla straniata iconografia circense, dalle copertine patinate ai crudi reportages da Dachau, dagli scatti sereni ai dolenti autoritratti che ritmano i paragrafi del volume, incardinato a un tempo agli spazi topsy turvy degli studi di posa e delle camere oscure, agli elastici passaggi di fronte e dietro l’obiettivo? Quasi che la tecnologia delle reflex suggerisse l’impellenza di un ribaltamento dell’immagine, quasi che la lezione perentoria di un mezzo ‘androgino’ come la fotografia indicasse l’urgenza di un punto di vista rovesciato…
Non a caso la sesta silhouette tratteggiata dalla scrittrice, in continue apparizioni da un profilo all’altro, è quella dell’Alice carrolliana, simbolo imprescindibile per un Novecento al femminile di cui si esalta non certo l’ingenua sprovvedutezza quanto l’accesso libero e continuo a prospettive inedite, a sorprendenti rapporti di scala. La bimba ‘perduta’, in quest’ottica, assurge anzi a simbolo efficace di un occhio ‘moderno’ rivolto alla realtà, propenso in particolare a distorsioni espressive o ad angolazioni sorprendenti.
Nelle storie raccontate dalla Rasy lo specchio da attraversare diventa quindi la lente fotografica. In maniera significativa tutte le «sue» donne compiono un cammino che le trasporta da un lato all’altro della macchina, subendo di conseguenza una metamorfosi radicale non solo per quel che riguarda le consuetudini di vita, le propensioni temperamentali, ma soprattutto per ciò che concerne l’apparenza fisica, alterata proprio nel mutamento da oggetto di visione a sguardo agente.
La selezione condotta per Le indiscrete si concentra su figure del panorama internazionale (con l’eccezione della Modotti che, nata a Udine, spese però i propri anni in un tran tran girovago e quant’altri mai cosmopolita): spiace tuttavia che, nella popolosa rappresentanza messa insieme dal libro, non abbia trovato spazio un medaglione dedicato a Lisetta Carmi, fotografa in grado di non sfigurare accanto alle colleghe straniere non solo per l’indubbia qualità del suo portfolio, ma anche per le scelte radicali e lo spirito contestatario che ne hanno sino ad oggi segnato la longeva esistenza. La Carmi – erede di una ricca famiglia della borghesia ebraica di Genova – si sarebbe infatti confrontata con svolte brusche nella sua parabola di artista sensibile, costruendo un iter personale assolutamente eccentrico e lasciandosi dietro un corpus di opere non meno sorprendente. Educata come pianista, rinunciò a una carriera di successo quando – posta di fronte alla decisione se partecipare o meno a uno sciopero indetto dalla Camera del Lavoro – si scoprì a pensare che le sue mani non erano più importanti del resto dell’umanità. Preferì pertanto affrontare il rischio di un infortunio pur di marciare accanto ai manifestanti-lavoratori, proprio come – di lì a poco – non tentennò nell’approssimarsi, con amore e rispetto, alla comunità dei «travestiti» insediata nei vicoli profondi del capoluogo ligure: ne venne fuori un’inchiesta umanissima che resta un capitolo ineludibile per la produzione fotografica italiana (e non solo). Un’altra Alice, che non ha avuto paura di compiere il salto: sarebbe stato bello sentire il suo coraggio raccontato dalla Rasy, con la verve incisiva con cui ha disegnato per i lettori la baldanza spregiudicata di altre cinque fotografe.