Sarà pur vero che l’influenza dell’arte giapponese fu da noi tardiva rispetto agli altri paesi europei, in particolare la Francia. Tuttavia, anche l’Italia può elencare una rispettabile serie di collezionisti dell’arte del Sol Levante che raccolsero oggetti e opere d’arte nel corso delle loro imprese nell’Estremo Oriente avvenute tra il 1870 e il 1890.
Edoardo Chiassone, a Genova, Enrico di Borbone a Venezia, il nobile Placido di Sangro a Napoli, Frederick Stibbert a Firenze, Riccardo Gualino a Torino, sono solo alcuni di coloro ai quali dobbiamo i tesori d’arte orientale custodite nei nostri musei. A questa lista, dobbiamo aggiungere il conte Giovanni Battista Lucini Passalacqua con il suo «museo giapponese», conservato al Museo delle culture di Milano. Ne scopriamo per la prima volta l’assoluta qualità degli oggetti nell’ambito di Oriente Mudec, un’iniziativa composta di due distinte mostre: Impressioni d’Oriente, arte e collezionismo tra Europa e Giappone e Quando il Giappone scoprì l’Italia, storie d’incontri, 1585-1890 (entrambe fino al 2 febbraio 2020).

SE LA PRIMA ESPOSIZIONE tratta dell’influenza che in Occidente ebbe l’arte giapponese, soprattutto in seguito alla firma del trattato commerciale che il paese nipponico siglò con gli Stati Uniti (Kanagawa, 1854), la seconda è un excursus storico attraverso le molteplici relazioni che ebbe il nostro paese con il Giappone. Si tratta di tre secoli che vanno dall’ambasciata dei giovani cristiani nipponici guidati da Ito Mancio, alla fase della modernizzazione nel periodo Meiji (1838-1912) che vide l’avvicendarsi di un nuovo ceto politico in grado di sfidare le potenze occidentali. In seguito le relazioni tra Occidente e Oriente hanno visto la nipponicità progressivamente contaminarsi, ma il primo continuerà a essere considerato razionale e materialistico, il secondo, tradizionale e spirituale.
In età contemporanea l’egemonia euro-americana renderà subalterno (consensualmente) il Giappone e vi farà comparsa l’«ibridismo strategico»: il «meglio dell’Occidente» e il «meglio dell’Oriente» (Koichi Iwabuchi). La vera preoccupazione sarà però quella, come scrisse il filosofo Naoki Sakai, di segnare la distinzione con l’Occidente perché altrimenti per il Giappone sarebbe stata la «perdita» della sua identità. Ci sarà occasione di tornare su ciò che è il neojaponism, ma per adesso restiamo al periodo circoscritto dalle due mostre, nello specifico su Impressioni d’Oriente, la quale illustra con cura quel periodo durante il quale in Europa «si sviluppò una vera e propria mania» per il Giappone e la sua cultura.

«COME TUTTI I RAPTUS AMOROSI – scrive in catalogo (24orecultura) Flemming Friborg, curatore insieme a Paola Zatti dell’esposizione – era infarcito di fantasia, mescolando verità, mezze verità e complete invenzioni». Visto dal lato occidentale fu un complicato esercizio di destrezza che si sviluppò tra la fascinazione verso la curiosità esotica e l’ammirazione per un pensiero estetico così connesso con le arti da scuotere ogni cosa in profondità tanto fu originale e spontaneo.

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Nei confronti del giapponismo – o giapponismi come suggerisce l’esposizione – gli artisti europei intrattengono comportamenti eterogenei. La cultura del Sol Levante apparve solo citata nelle nature morte di Fantin-Latour o Meunier: ventagli e servizi da tè giapponesi disposti in angoli di case borghesi. In altri casi fu liberamente imitata come il vaso a forma di pesci di Émile Reiber che rinvia a un coevo esemplare orientale in bronzo, oppure reinterpretata nello stile come fecero Grubicy de Dragon o Galileo Ghini.

In tutti i casi, l’arte giapponese sarà fonte vitale d’ispirazione per molti: da Auriol a Gauguin, da Sérusier a Toulouse-Lautrec, da Van Gogh a Bigot e Denis e per gli italiani, Michetti, Previati, De Nittis. L’efficace confronto della serie delle piccole tavole di quest’ultimo, Sulle falde del Vesuvio (1872) con le xilografie (ukiyo-e) delle vedute di Hiroshige o di Hokusai del monte Fuji, fanno riflettere sulla rivoluzione dello sguardo che provocò l’arte figurativa nipponica.

COME ILLUSTRA con calibrati esempi la mostra, le nostre poetiche della modernità nell’arte e nella decorazione assunsero i caratteri che conosciamo proprio dalla suggestione del «mondo fluttuante» che queste stampe furono in grado di trasmettere.
Poeti e artisti impressionisti o simbolisti, rimasero sedotti dalla linea giapponese antiprospettica, asimmetrica, incompiuta e dissonante, e dagli attributi polisemici che questa esprimeva della realtà: instabile senza traumi ed effimera. È come se il giapponismo avesse trasferito nei suoi racconti figurati quel «fenomeno di coscienza» (iki) che Kuki Shuzo seppe per primo spiegare nei suoi molteplici «attributi». Tra questi, quelli «intensivi» della seduzione erotica, dell’«energia spirituale», della «rinuncia» o dell’«indifferenza sulla conoscenza del destino», che poi tutti rinviano al fascino ascetico del buddhismo Zen.
È indubbio che né il critico d’arte Théodore Duret, né il suo amico, il patriota risorgimentale Enrico Cernuschi, insieme nel 1871 in tour in Asia per raccogliere opere d’arte – costitutive poi del Musée Cernuschi a Parigi – compresero i nessi così stringenti tra principi morali e estetica dell’arte nipponica. Tanto meno furono preoccupati di conoscerli il pittore Antonio Fontanesi, lo scultore Vincenzo Ragusa e l’architetto Giovanni Cappelletti chiamati a Tokyo (1876-1878) a insegnare lo «stile occidentale». L’attrazione degli occidentali verso il Giappone seguiva le regole di un’indefinita «immedesimazione» (Einfühlung) verso «una nostalgia innata – come scrisse Daisetz T. Suzuki – per la semplicità originaria». Con il processo di modernizzazione del periodo Meiji, all’incremento degli «scambi globali» subentrò un progressivo declino nell’arte della stampa fino ad assistere – con il primo decennio del XX secolo – a un radicale cambiamento. Con la scomparsa dopo il 1905 delle stampe tradizionali subentrarono nuovi tipi di xilografie.

QUESTA FASE del giapponismo è la sezione, forse, più originale della mostra. Chris Uhlenbeck la illustra con cura in catalogo. Si tratta di come gli editori e artisti nipponici introiettarono da un lato i temi e i gusti internazionali adattando lo stile ukiyo-e per rispondere a un mercato sempre vivacissimo, e dall’altro, in parallelo, gruppi di pittori a contatto con gli ambienti d’oltremare, rivendicarono nuove forme espressive e di organizzazione del loro lavoro. È la storia di due movimenti artistici: Shin hanga (Stampe nuove) e Sosaku-hanga (Stampe creative).
Il primo ebbe il suo fulcro nell’editore Shozaburo Watanabe che raccolse intorno a sé una cerchia di pittori in grado di inventare nuovi soggetti d’ispirazione giapponese, oltre a collezionare e promuovere la tradizione di ukiyo-e. L’aiutò un artista austriaco, Friedrich (Fritz) Capelari, convertitosi allo stile giapponese, ma presto Watanabe riprodusse i disegni di artisti locali quali Hashiguchi Goyo, Ito Shinsui, Kawase Hasui e molti altri.
Dalle molteplici storie che si potrebbero raccontare intorno al giapponismo quella forse più indicativa che estraiamo dalla mostra è lo scambio di regali tra la rivista Shirakaba e Auguste Rodin in occasione del suo compleanno nel 1911. Trenta ukiyo-e – sette di questi esposti insieme alla scultura vitrea di Maschera di Hanako dello scultore francese – partirono da Tokyo per Parigi e tre sculture fecero il percorso contrario per essere collocate nel giardino di uno dei membri della rivista: preludio in età contemporanea di quella che sarà la mondializzazione dell’arte. La storia dei giapponismi continua.

 

SCAFFALE

Per Cesare Brandi, il Santuario shintoista di Ise rappresentava una costruzione «inspiegabile». Di quella strana palafitta di legno datata tra il V e il VI secolo d.C., consacrata alla dea Amaterasu, non ne comprendeva l’«attrezzatura esornante» del tetto che contrastava con i tronchi d’albero che la sostenevano: «fusto e non colonna». Con il volume «Sengu. La ricostruzione del Santuario di Ise» (Electa architettura, pp. 287, euro 69), J.K. Mauro Pierconti illustra i significati religiosi e culturali di quell’antichissima architettura che ogni vent’anni, dal 690 d.C., è «ritualmente» ricostruita (shikinen sengu). Il suo accurato testo accompagna le immagini del fotografo Miyazawa Masaaki dell’ultima ricostruzione iniziata nel 2005 e conclusa nel 2013, restituendoci i momenti della cerimonia sacra: dall’ingresso nella foresta per il taglio degli alberi, al trasporto e alla conservazione in luoghi sacri degli stessi, fino alla costruzione del Santuario. È un libro importante per comprendere aspetti essenziali della cultura giapponese: cos’è la tradizione e l’autentico, quale il senso della tecnica e dell’ornamento. (ma. giu.)