La legge dell’oca. Superata una casella, 5 stelle e leghisti tornano sempre al punto di partenza sull’anti corruzione. Non è bastato il faticoso accordo sulla prescrizione, ottenuto rimandando di un anno l’entrata in vigore di una norma che avrà comunque effetti non prima di quattro o cinque, e legandola a una riforma del processo penale tutta da inventare (e fuori dal «contratto di governo»). Non è bastato il tira e molla sulla depenalizzazione del peculato, tentata dalla Lega e stoppata dai grillini dopo un giorno di trattative. Sono servite altre 24 ore per cercare un’accordo sulla trasparenza dei partiti. Senza alla fine trovarlo: dopo un altro giorno di stop auto imposto ai lavori delle commissioni prima e seconda della camera – convocate di venerdì per rispettare i tempi della procedura di urgenza chiesta proprio dalla maggioranza – Lega e 5 Stelle hanno concluso che non sono d’accordo. Hanno gettato la spugna e rinviato tutto all’aula, dando in sostanza più tempo a Salvini e Di Maio per litigare. Nel frattempo Forza Italia (giovedì) e il Pd (ieri) hanno abbandonato i lavori. I giallobruni si sono fatti ostruzionismo da soli.

L’ultimo litigio sulla trasparenza dei partiti (e movimenti). I 5 Stelle non si sono opposti alla cancellazione del comma (il 2 dell’articolo 9) che vincolava partiti e movimenti a una sola fondazione, troppo smaccatamente scritto nell’interesse della Casaleggio-Rousseau (resta nello statuto M5S il vincolo per i parlamentari di destinare solo a Rousseau una quota della loro indennità mensile). Ma sono tornati indietro d alla scelta di ammorbidire i vincoli sui finanziamenti privati. Che l’accordo ci fosse lo prova il fatto che l’emendamento meno rigoroso (il 7.45) fosse stato presentato dai relatori, entrambi grillini. Nel testo originario della legge, scritta dal ministro grillino Bonafede, i contributi da chiunque ricevuti andavano registrati sulla contabilità tenuta dal notaio e pubblicati entro un mese sul sito del partito, con l’eccezione dei soli contributi inferiori a 500 euro (purché in contanti). L’emendamento voluto dalla Lega, e accettato in un primo momento dai grillini, alza la soglia a 2.000 euro per in contributi in denaro, a 3.000 di valore per quelli consistenti in prestazioni (nessuna soglia per le opere intellettuali), rimanda la pubblicità sul sito ai 90 giorni successivi, cancella l’obbligo del registro notarile e limita queste regole ai contributi ricevuti da imprenditori, professionisti o lavoratori autonomi (per le somme ricevute da pensionati, disoccupati o lavoratori dipendenti non è previsto nulla). Non solo, secondo le regole meno stringenti non c’è più alcun vincolo all’utilizzo dei fondi «per gli obiettivi politici previsti dallo statuto» ed è assai più blando l’obbligo di pubblicare sul sito del partito i curriculum e il casellario giudiziario dei candidati alle elezioni (che possono non dare il consenso, prima non necessario).

Tutto questo però è saltato, o meglio è stato rinviato all’aula perché i relatori hanno ritirato gli emendamenti. Prendendosene la colpa: il sottosegretario alla giustizia Ferraresi, grillino anche lui, ha detto che «qualcuno nel M5S ha preso delle iniziative sul punto delle soglie che non era in discussione, c’è stato – ha aggiunto – un difetto di comunicazione». In realtà il passo indietro si spiega come al solito con altre partite su altri tavoli: la lite sugli inceneritori e la cancellazione dal decreto fiscale dell’arresto per i grandi evasori. Più esplicito il leghista Iezzi, portavoce di Salvini in commissione: «Avevamo un accordo, hanno detto che non gli va più bene e vogliono rinegoziarlo, Basta, è una cosa da pazzi, mi rifiuto di lavorare così».