L’Onu cambia passo. Prova, nel fare un bilancio degli Obiettivi del Millennio che si era data dal 2000 al 2015, a cambiare strategia. A declinare sul piano pratico le mete che il pianeta avrebbe dovuto raggiungere nell’arco di 15 anni, dopo che i Paesi membri avevano firmato la promessa del millennio di dimezzare la povertà e far scomparire la fame. Nel considerare luci e ombre di un bilancio di tre lustri, l’Onu ha deciso di cambiare modello e di arrivare a un nuovo negoziato coi Paesi membri che parta da una piattaforma condivisa. Lo ha fatto con una serie di riunioni preparatorie e un lungo processo di consultazione ora arrivato al capolinea e di cui si discute, da ieri, a Torino con un summit dove sono arrivati ministri e sindaci da 13 Paesi di Asia, Africa e soprattutto America latina.

Il vertice preparatorio dei nuovi Obiettivi (Millenium Development Goals) che Ban ki-moon presenterà l’anno prossimo all’Assemblea generale, verte su uno dei sei grandi temi che l’Onu, attraverso Undp (il Programma per lo sviluppo) UN-Habitat (ambiente e città) e un coordinamento internazionale (Undg), ha selezionato in un processo consultivo che ha coinvolto circa due milioni di persone, dagli enti locali alle associazioni indigene, da gruppi di imprenditori e accademici ad associazioni della società civile. E a Torino si discute forse del tema più interessante e innovativo: il ruolo dei territori, il rapporto – in sostanza – tra temi e cittadini, tra gli obiettivi da raggiungere e la loro declinazione locale. Per dirla in due parole: su «come» si fa più che su «cosa» si fa. L’idea di fondo è che in un mondo globalizzato la paura del futuro sia ugualmente condivisa – pur con tutte le differenze – tra i cittadini del Sud come del Nord del mondo. In una parola l’idea che a crisi locali ci possano essere solo risposte globali e che se la distruzione dell’ambiente è un tema globale, poi però bisogna vedere come si fa a combatterla sul piano locale. Se il paradigma funzionasse, il territorio – a Sud come a Nord – diventerebbe il protagonista delle trasformazioni. Un territorio che non è solo un codice amministrativo ma un insieme di reti, di esperienze, di persone.

Da questo punto di vista la presenza dei latinoamericani sembra il valore aggiunto. Lo spiega al manifesto il ministro della Pianificazione di Quito Pabel Muñoz: «La partecipazione del cittadino, delle comunità di base, dei gruppi indigeni, sono per noi un elemento fondamentale della trasformazione istituzionale del nostro Paese, un’intuizione nata a Porto Alegre e che in America latina ha fatto molta strada tanto da essere uno dei segni di una nuova epoca caratterizzata, in Ecuador come altrove, dall’abbandono delle politiche neoliberiste. Con un recupero della pianificazione che però non è più un aspetto verticistico ma un processo condiviso attraverso la capacità di decentralizzare e di delegare localmente». Muñoz sostiene che per il suo governo un appuntamento sulla «localizzazione» (il titolo scelto per l’incontro di Torino) meritava un’attenzione particolare proprio perché la strada del decentramento e della delega è una nuova frontiera su cui i governi della nuova sinistra latina stanno lavorando; una specie di onda lunga che sta investendo l’intero continente. Un modello forse di cui anche il nostro Paese dovrebbe riappropriarsi.

A Torino, gli onori di casa li ha fatti il sindaco Piero Fassino che ci tiene a dare di questa città un’immagine internazionale anche per farne un modello di coniugazione tra temi locali e temi nazionali e globali. Chissà se il dirigista Renzi ne terrà conto.