La teoria musicale adorniana ha sempre subito critiche severe e intransigenti. Vuoi per quel modo di fare filosofia della musica col martello, vuoi per il legame che il filosofo tedesco Theodor Adorno istituiva costantemente fra musica e dominio, i suoi giudizi sono spesso stati visti come tentativi tendenziosi di piegare l’estetica compositiva a esigenze di natura ideologica e politica, e le sue invettive nei confronti della musica leggera e le critiche ingenerose verso il jazz come il frutto di uno spiccato elitarismo aristocratico, come l’espressione di valori ormai inattuali. Tuttavia, «che il nostro tempo e la nostra musica siano diverse non significa che le analisi di Adorno siano superate». Questo è il principio che anima il saggio di Marco Maurizi La vendetta di Dioniso. La musica contemporanea da Schönberg ai Nirvana (Jaka Book, pp. 317, euro 18). L’autore adopera le categorie adorniane per metterle alla prova, tentando di comprendere se possano essere utili ancora oggi, in un panorama musicale e culturale completamente trasformato.

E PROPRIO parafrasando Adorno, l’autore è convinto che oggi più che mai vi sia bisogno di una filosofia della musica postmoderna, senza per questo credere all’esistenza del postmoderno come categoria centrale della nostra epoca. La musica postmoderna, infatti, non solo esiste senza alcun dubbio mentre la filosofia postmoderna probabilmente no, ma «essa è infinitamente più vitale, seria e, soprattutto, vera della sua controparte filosofica». Si tratta infatti di una musica che travalica e supera le differenze classiche fra alto e basso, colto e pop, tradizione e progresso: all’unità organica preferisce la valorizzazione del frammento, al carattere sistematico e chiuso dell’opera preferisce anteporre quello aperto della performance.

Inoltre, il famigerato ruolo del soggetto – la cui morte e dissoluzione viene cantata all’unisono dal coro di voci bianche dei filosofi postmoderni – viene costantemente messo in questione dalla normale prassi musicale, che mediante l’appropriazione di temi altrui, l’ibridazione, le citazioni, costruisce un linguaggio e un’istanza espressiva nuove, in un continuo trascendimento del canone. Si capisce perciò in che senso Adorno parlasse della musica come di un linguaggio non-intenzionale, proprio perché essa «infrange l’idea dell’unità del soggetto prima ancora che si costituisca».

MA CONSIDERARE ancora validi i suoi giudizi significa allora, forse, respingere la tesi dell’invecchiamento della musica e della regressione dell’ascolto? Al di là delle grossolane sviste sul jazz (solo in parte giustificabili con la scusa di aver lasciato gli States senza assistere a quel processo che dallo swing porterà prima al bebop e poi alla rivoluzione del jazz modale) la lezione di Adorno sembra essere vera, paradossalmente, nella misura in cui oggi la musica sembra essere andata in una direzione contro-fattuale rispetto alle sue deduzioni. Da un lato infatti, l’industria culturale si è col tempo appropriata del processo di emancipazione della dissonanza, standardizzando e neutralizzando la sua dialettica interna proprio laddove essa sembra esprimere il maggior grado di libertà e varietà.

IL TENTATIVO à la John Cage di giungere a una libertà compositiva assoluta si rivela ben presto una «reazione paranoica al terrore dell’identico», e così il mito della liberazione musicale finisce per essere un comodo sostituto della liberazione sociale. Dall’altro lato, però, la musica sembra possedere oggi il suo potenziale innovativo nel «sovraccarico concettuale del suono», che permette di far saltare dall’interno «le forme fisse che veicolano il piacere degli ascoltatori» operando uno «snaturamento del linguaggio» che lotta contro ogni forma di regressione, senza soddisfarsi di quello che Adorno chiamava l’appagante dei rapporti armonici e simmetrici.

DA FRANK ZAPPA ai Velvet Underground, passando per Johnny Rotten, i Sonic Youth e i Nirvana, la musica postmoderna ha allora portato avanti metodicamente un ideale della «sporcizia» come valore, e così è stata in grado di ridare nuova linfa persino alla forma-canzone, risolvendo il problema «dell’apparente esaurimento delle sue possibilità espressive» con la voce di Cobain che «canta ai limiti delle sue possibilità fisiche».
E poco importa se le urla sostituiscono la melodia. Bisogna piuttosto chiedersi, come faceva Nietzsche: chi saprebbe mai confutare un suono?