Non sono molte le donne nella scena politica libica, e Sehan Sergewa – di cui si sono perse le tracce da mercoledì notte – è senza dubbio la più nota. Deputata del Parlamento di Tobruk, eletto nel 2014 e riconosciuto dalla comunità internazionale ma basato nell’Est del Paese sotto il controllo del generale Haftar, e leader di un piccolo partito da lei appena fondato – il Moderate Libyan Movement – per sostenere i diritti umani in Libia, anche quelli dei migranti rinchiusi nelle prigioni spesso simili a lager, e la partecipazione delle donne – che rappresentano il 60% della popolazione libica, ricordava – alla sfera pubblica, Sehan Sergewa era anche un volto noto, popolare, perché partecipava spesso, anche nella veste di psicologa infantile, a dibattiti in tv e interviste da opinionista.

E proprio la sua ultima apparizione sugli schermi della Alhadath tv channel, vicina al governo della Cirenaica, martedì, potrebbe esserle costata cara, avendo attaccato la retorica dei sostenitori del generale, quali il presidente del Parlamento Aguila Saleh. Un gruppo di uomini armati – a quanto si apprende dai media locali – ha preso d’assalto la sua casa nella parte orientale di Bengasi, prima provocando un incendio e poi entrando armi alla mano. Dopo aver sparato e lasciato a terra il marito, poi medicato in ospedale, gli assalitori hanno rapito Sehan Sergewa e la figlia e si sono dileguati.

Il governo di Tripoli ha subito accusato Haftar di essere responsabile del rapimento, «risultato dell’assenza del dominio della legge e delle garanzie di libertà» nel territorio controllato dalle forze del generale cirenaico. Un’accusa abbastanza generica alla quale ha risposto il dipartimento di polizia di Bengasi con un post sulla pagina ufficiale di Fb a dir poco laconico: non risulta la presenza di Sehan Sergewa in nessuna delle nostre stazioni. L’immediato rilascio della deputata viene chiesto dalla missione Onu in Libia (Unsmil), che pretende l’immediata apertura di un’indagine per capire chi l’abbia sequestrata e ottenerne la liberazione. Anche l’ambasciata italiana a Tripoli – Sergewa amava l’Italia, aveva partecipato alla Conferenza di Palermo e sperava in un accordo tra le due parti ora in conflitto per arrivare a nuove elezioni e alla stabilizzazione del Paese – così come la delegazione Ue, si associano nell’esprime «preoccupazione» per la sua sorte. «Silenziare le voci di donne in posizioni decisionali non sarà tollerato», è la frase, molto dura, con cui si chiude il comunicato dell’Unsmil, missione diretta da Stephanie Williams e presieduta da Ghassam Salamé.

Sergewa era appena tornata dal Cairo, dove aveva partecipato, come parte di una delegazione di parlamentari libici, a una tre giorni di incontri con funzionari dell’intelligence e della diplomazia egiziana per cercare una soluzione alla attuale crisi in Libia. Erano note le sue posizioni fortemente critiche sull’offensiva su Tripoli lanciata dal generale Haftar lo scorso 4 aprile e già arrivata alla cifra di 1.100 morti (di cui 56 civili) e 100 mila sfollati. Nel 2011 aveva sostenuto, con un dossier presentato al tribunale dell’Aja, le denunce per stupro di centinaia di donne libiche ad opera delle guardie e dei soldati di Gheddafi e in particolare aveva appoggiato quella di cinque «amazzoni» che avevano dichiarato di essere state ripetutamente violentate dal Colonnello e dai suoi figli.

Nei sobborghi meridionali di Tripoli i combattimenti continuano anche con armi pesanti a Wadi Rabie, Ein Zara, intorno all’aeroporto di Mitiga, che ormai funziona a singhiozzo. I Mig e i droni dell’Lna si spingono con incursioni verso il centro della capitale e i miliziani che insieme alle forze di Misurata difendono le posizioni per conto del premier Serraj temono – a leggere il Libyan Express – un affondo definitivo durante il fine settimana. Settimana iniziata con una dichiarazione a sei (Egitto, Francia, Italia, Emirati, Regno Unito e Usa) che chiede il cessate il fuoco e il ritorno al dialogo. Ma la maggior parte di questi Paesi hanno più parti in commedia.