È un progetto nato dieci anni fa quello di I Am Not Your Negro, il documentario presentato alla Berlinale che Raoul Peck ha dedicato a James Baldwin, scrittore e intellettuale africanamerican morto prima di portare a termine il suo ultimo libro, in cui ripercorreva e legava tra loro le vite e il pensiero dei tre più importanti leader del movimento per i diritti civili: Malcolm X, Martin Luther King e Medgar Evers. «Volevo assicurarmi che non venisse dimenticato, che le sue parole continuassero a vivere e a essere comprese non solo dagli esperti ma da tutti» dice Peck di Baldwin, le cui parole vengono lette nel documentario – candidato all’Oscar – da Samuel L. Jackson. I Am Not Your Negro ripercorre così la storia e i protagonisti del movimento che ha cambiato il volto degli Stati Uniti, mettendolo in relazione con le rivolte di oggi e in particolare con il contesto violento che ne è alla radice e che non sembra essere cambiato da allora. Attraverso gli scritti di Baldwin portati sullo schermo da Peck – che non a caso a Berlino presenta anche un film sul giovane Karl Marx – emerge la fotografia di un’America in cui oggi come ieri il «negro» del titolo si rivela una costruzione caleidoscopica eretta dalla classe dominante: la borghesia bianca.

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Nel film non c’è soluzione di continuità tra la violenza nei confronti dei neri dei’ 60 e ’70 e quella di oggi.
Fondamentalmente niente è cambiato. Le parole di Baldwin ci riportano ai fatti fondamentali, come ad esempio i numeri: quanti neri sono in carcere oggi? In quante famiglie afroamericane i bambini crescono senza il padre o la madre, qual è la loro condizione abitativa? Sono questi i criteri per comprendere se le cose sono migliorate o meno. Guardando la tv si potrebbe pensare che tutto sia perfetto: c’è Jay Z, Beyoncé, giornalisti neri… Ma questa è solo una parte della realtà.

Se poco o niente è cambiato da allora, chi sono oggi le menti che possono considerarsi all’altezza di leader come Martin Luther King o Malcolm X?

Loro sono stati eliminati, non solo fisicamente, e con loro un movimento. Si è poi eretta una statua di Martin Luther King – visto come il buon predicatore non violento – e non a Malcolm X. Ma negli ultimi due anni della sua vita lo stesso Reverendo King era diventato un radicale: chiedeva un cambiamento sociale non solo per i neri ma anche per i bianchi poveri. Loro avevano capito che si trattava di un problema di classe e non di razza, e quando il discorso si è spostato su questo piano sono diventati pericolosi, dei nemici da eliminare.

Per una manciata di secondi nel film compare anche Donald Trump…

L’ho inserito perché fa parte integralmente della mitologia dell’innocenza sottolineata da Baldwin: negli Stati uniti puoi commettere il crimine più abominevole e poi semplicemente scusarti, verrai subito considerato un uomo nuovo. Con le parole di Baldwin l’immaturità diventa una virtù.

Nel documentario è chiaro il ruolo del cinema nel perpetrare questo mito.

Hollywood ci ha consentito di costruire una bugia e di continuare perennemente a viverla. Mi ricordo quando ero ragazzo ed è uscito Indovina chi viene a cena: ero orgoglioso di vedere per la prima volta sullo schermo un nero bello, intelligente, un dottore che riesce perfino a conquistare la donna bianca. Ma allo stesso tempo, senza che me ne accorgessi, Hollywood mi stava dando un modello a cui dovevo conformarmi per essere accettato.

Durante la cerimonia degli Oscar di quest’anno tutti si aspettano dei premi politici.

Baldwin stesso era molto critico nei confronti degli intellettuali liberali: pensava che non corressero il rischio delle loro idee, che per loro non ci fossero conseguenze. Oggi è lo stesso: siamo oltre la fase in cui bastava dar voce pubblicamente alla propria solidarietà senza fare nulla di concreto. Una protesta come quella sugli «OscarSoWhite» per me è superficiale, tutti sanno che il vero problema è chi detiene l’autorità per consentire che un film venga alla luce: per la maggior parte uomini bianchi.

Non c’è quindi speranza per il futuro?

Marx spiegava come la borghesia ci vuole far credere che le cose saranno sempre uguali. Ma non c’è niente che duri all’infinito: la società in cui viviamo è storicamente determinata, è detta capitalista per il suo modo di produzione che è solo uno dei tanti che sono esistiti e che non è destinato a durare per sempre.