Benché faccia il sold out a tutte le Feste dell’Unità – e forse anche a quelle dell’Avanti e del Biancofiore – lungo gli anni Settanta, l’Orchestra Spettacolo Casadei non è vista di buon occhio dall’intellighenzia ufficiale dei grandi partiti (Pci, Psi, Dc) in odore di compromesso storico. Fin da subito attorno a Raoul Casadei – nato a Gatteo il 15 agosto 1937 e morto a Cesena il 13 marzo 2021 – e alle sue numerose iniziative, cala il gelo della Cultura con la C maiuscola, tanto per eccesso di snobismo, quanto per carico di pruderie, ancora entrambi serpeggianti nel ceto medio italiano. Tornando al contesto di oltre mezzo secolo fa, bisogna capire che Raoul Casadei risulta infatti il comunista dichiarato e gaudente, metafora di una Romagna prosperosa e arricchita in fretta dal turismo postbellico: giovane, atletico, bello (ma non troppo), bandleader, cantante e chitarrista, nonché titolare di 11 album ufficiali tra il 1970 e il 1976, è il personaggio che fa quindi comodo per manifestazioni oggi definibili populiste.
Occorre aspettare la seconda metà degli anni Settanta con la definitiva affermazione nelle università italiane di una delle «sciences humaines» come la semiologia, a non a caso politicamente vicina alla sinistra extraparlamentare, affinché i fenomeni della cultura di massa, dal cinema ai fumetti, dalle canzoni alla televisione, ottengano attenzione e rispetto. A partire dagli studi pionieristici di Umberto Eco – che, all’epoca, scrive su il manifesto con lo pseudonimo di Dedalus – un collega del neonato Dams di Bologna, Gino Stefani, titolare della cattedra di Semiologia della Musica è il primo luminare a occuparsi di Raoul Casadei: singolare figura di giovanissimo clarinettista bebop nel Trio di Giorgio Gaslini del 1946, dopo l’immersione nella musica sacra, Stefani inizia a concepire il linguaggio sonoro al di là di logori distinguo (tuttora accademicamente vigenti) fra scuole, generi, correnti, movimenti, tendenze, battendosi decisamente per la parità sulla musica intera: sul piano strutturale tra un brano di Orietta Berti, una sinfonia di Beethoven, un assolo di Coltrane, un gamelan balinese, una schitarrata di Keith Richards, un tunz-tunz a un rave party e il liscio di Casadei in balera non esistono differenze.

ORIGINALITÀ
Dice Gino in una sorta di autobiografia: «Quanto ai miei contributi di studio [Introduzione alla semiotica della musica (1976), Capire la musica (1978), La melodia (1992)], come per tutti gli altri generi musicali la mia attenzione non era tanto ai repertori – qui, popolari – in sé, quanto ai modi di appropriazione, all’arte di arrangiarsi, alle mosse e tattiche cognitive e creative della gente comune sulla musica. Questi aspetti, ai quali dedicai più d’un corso annuale all’Università, appaiono infatti dai miei interventi quanto dal volume, a mia cura, Dal Blues al Liscio. Studi sull’esperienza musicale comune (1992), di miei allievi laureati. Si potrebbe concludere con una battuta, dicendo che i miei, più che studi sulla musica popolare, sono studi popolari sulla musica».
Ad avvalorare le tesi di Stefani esce, nel 1981, in una collana su rockstar e cantautori, il volumetto Raoul Casadei: il liscio a cura di Clara Manfredi, a tutt’oggi l’unico saggio sull’argomento: in realtà si tratta di una lunga intervista, seguita da una raccolta di testi delle canzoni da Romagna mia a Il passatore (molte, ancora del repertorio dello zio Secondo Casadei), analizzate, sia pur brevemente, con il giusto imprinting musicologico: nelle conclusioni si cita pure un articolo apparso sul settimanale Oggi il 30 luglio 1977, in cui vengono intervistati alcuni esperti come il poeta Tonino Guerra, il cantautore Dino Sarti, l’etnomusicologo Roberto Leydi sui rapporti tra il folklore e Casadei: tutti rimproverano a quest’ultimo una scarsa genuinità primigenia, ma l’errore commesso allora come in parte oggigiorno è collocare Raoul e i propri seguaci in una sorta di folk di serie B, non capendo che il ballo liscio, all’interno della generale popular music, andrebbe invece accostato via via alla canzone, alla world music, alla nuova musica campagnola. E infatti poco per volta arrivano gli studiosi che intuiscono l’originalità casadeiana, come Gianni Borgna che nella sua ancor oggi attualissima Storia della canzone italiana (1985, con prefazione del linguista Tullio De Mauro), pur dedicando a Raoul solo una citazione e 10 righe delle 340 pagine (incentrate perlopiù su aspetti letterari), ha parole quasi d’encomio: «(…) suoni vivaci, insinuanti, cristallini, a volte anche nostalgici, dolci, simili a quelli delle musiche contadine di altre nazioni, ottenuti con lo strumento tipico della tradizione locale, il clarino in do (la voce della Romagna, l’antica piva, suoni striduli e allegri che ci ricorda le feste sull’aia, la mietitura, i pranzi di nozze), su testi che parlano di fuga dal mondo urbanizzato, di amore per la natura, di esaltazione dei semplici e degli umili (…)».

CONTRIBUTO ESTETICO
Nel 1991 è una prestigiosa guida britannica Directory Of World Music curata da Philip Sweeney a trattare in due paginette alla voce «Italy» la musica popolare così come declinata lungo il XX secolo da molti artisti che in vario modo collegano le tradizioni locali alle modernità afro-anglo-americane: Vittorio Borghese, Enrico Musiano e Casa Dei (sic.) sono indicati quali capiorchestra in grado di avvicinare i giovani alle danze d’antan. Quattro anni dopo si assiste a un’operazione inversa nel senso che è la musica a omaggiarne per la prima volta, seriamente, il contributo estetico: il ricercatore, organettista, etnologo Riccardo Tesi registra Un ballo liscio, che rimane un disco epocale per il folk revival: la bellezza di dieci melodie viene ancor più sottolineata da nuovi arrangiamenti talvolta in chiave swing o manouche: è il preludio a fenomeni contemporanei da parte di veri jazzisti (Gianni Coscia, Gianluigi Trovesi, Simone Zanchini, Luisa Cottifogli, Claudio Zappi), fino alla rock band Extraliscio sponsorizzata da Elisabetta Sgarbi.
Tuttavia l’idea più genialmente originale per una autentica valorizzazione della musica di Raoul Casadei, senza ammantarla di troppe connotazioni artistoidi, è quella di Paolo Prato nel fondamentale studio La musica italiana: una storia sociale dall’Unità a oggi (2010); anch’egli per Raoul una sola citazione e 27 righe (su 525 fitte pagine) fondamentali: «(…) sdoganando un genere minore. Un genere che da noi riempie uno spazio di mercato analogo a quello del country degli Stati Uniti, ma qui il radicamento convive con l’ironia a volte grossolana e la voglia di divertimento». Tre anni dopo arrivava l’autobiografia Bastava un grillo (per farci sognare) scritta da Raoul assieme a Paolo Gamba, dove emerge la «joie de vivre» di un personaggio generoso, felice, entusiasta, al quale molti artisti di differenti generi iniziano a rendergli omaggio, a invitarlo ai loro concerti o viceversa a essere ospitati nell’Orchestra Casadei.
Fra le tante memorie che ora affiorano, vale la pena ricordare quanto dice Raoul a Clara Manfredi nel 1981: «Genova, la città industriale, la città della Riviera, la costa di élite per eccellenza, non ci avevo pensato mai. Quando sono stato al Palasport di Genova, invece, ho battuto tutti i record, anche quello dei Beatles in Italia. Dopo che erano stati venduti tutti i biglietti, i carabinieri hanno dato l’ordine di aprire le porte perché tutti potessero ascoltare! A Genova! Una città lontanissima, ancor più di Milano!».
Ma è in conclusione sulla tripla idea di canzone, world music e country nostrano che andrebbe intrapresa un’analisi esaustiva del contributo di Raoul Casadei a un’antropologia romagnola, alla storia del ballo liscio, a una cultura pop(olare) italiana, che all’estero risultano conosciute e apprezzate forse meglio che in patria.