Raoni Metuktire, simbolo vivente della lotta secolare dei popoli indigeni dell’Amazzonia, è stato proposto per il premio Nobel per la pace. La candidatura, lanciata da un gruppo di antropologi e ambientalisti della Fondazione Darcy Ribeiro, coincide con uno dei più feroci e devastanti attacchi che la foresta e le sue comunità abbiano mai subito. La vita di questo novantenne capo indigeno è stata profondamente segnata dagli eventi che si sono succeduti in Brasile negli ultimi decenni, dal regime militare del 1965 all’insediamento di Bolsonaro. Un arco di tempo di oltre 50 anni, durante il quale suo grido di allarme ha raggiunto ogni angolo del pianeta. Raoni, appartiene alla etnia Kayapò, una popolazione che vive nel Sud del Parà al confine col Mato Grosso.

LA SUA ERA UNA COMUNITÀ NOMADE e ha trascorso i primi anni della sua vita spostandosi all’interno della foresta e delle aree attraversate dal fiume Xingu, un corso d’acqua che molti anni dopo difenderà con forza dall’assalto della centrale elettrica di Belo Monte. Raoni all’età 15 anni prende già parte alle iniziative della sua comunità e decide di far uso di un disco labiale, un ornamento sul labbro inferiore che rappresentava un marchio di riconoscimento degli antichi guerrieri che lottavano per difendere la loro terra. Il disco labiale è anche un simbolo legato alla volontà di comunicare e alla capacità oratoria. Da allora Raoni lo utilizza ogni volta che deve incontrare altri capi indigeni, in manifestazioni pubbliche e negli incontri con autorità internazionali. Il suo capo, inoltre, è adornato di piume di uccello che vogliono segnalare il suo rapporto con gli animali della foresta. Con questi ornamenti vuole esprimere la sua identità e le tradizioni del suo popolo. Solamente all’età di 24 anni viene a contatto con gli uomini bianchi, i fratelli Caudio e Orlando Villas-Boas, due antropologi che si occupavano della questione indigena. Essi scoprono la ricchezza culturale delle popolazioni indigene e ne difenderanno negli anni l’integrità fisica e culturale. Si battono contro i tentativi di assimilazione culturale, dimostrando che i processi di integrazione avevano sempre prodotto la disgregazione delle comunità. «L’indio sopravvive solamente nella sua cultura», affermano. Racconta Raoni: «Ricordo sempre le parole di Caudio che mi invitava ad essere quello che sono sempre stato, per difendere il mio popolo. So che per preservare i nostri diritti dobbiamo lottare, ma dobbiamo anche preservare la nostra cultura. Quello che apprendiamo deve servire a difendere la cultura indigena e la foresta»

Dalla metà degli anni ’60 alla metà degli anni ’80, la dittatura militare dichiara guerra agli indigeni e all’Amazzonia. In quegli anni la popolazione indigena, perseguitata e scacciata dai suoi territori, per far posto a strade, dighe, sfruttamento minerario, raggiuse il suo minimo storico.

RAONI E LE COMUNITÀ CONTRASTARONO con forza questa logica di conquista e sfruttamento, pagando un prezzo molto alto. Secondo la «Commissione verità», che ha indagato i crimini della dittatura, sono stati ben 8 mila gli indigeni assassinati in quel periodo. La notorietà internazionale di Raoni arriva col cineasta belga Jean Pierre Dutilleux che, profondamente colpito dalla sua personalità e dal suo impegno, gira nel 1978 un film documentario, Raoni, presentato al festival di Cannes. In quegli anni, l’altra straordinaria figura di difensore dell’Amazzonia e dei popoli che la abitano è rappresentata da Chico Mendes, che verrà ucciso nel dicembre del 1988. Dalla metà degli anni ’80, Raoni partecipa a molte iniziative e riunioni con rappresentanti istituzionali. Mostra decisione, ma anche capacità diplomatiche. Incontra a San Paolo nel 1987, nel corso di una conferenza sui diritti umani, il cantautore inglese Sting che lo sostiene nel progetto di creare un parco nazionale nella regione del fiume Xingu. Raoni partecipa con Sting ad un lungo tour che dura 3 mesi e che tocca ben 17 paesi e durante il quale viene riproposta la necessità di difendere la foresta e gli indigeni. I fondi raccolti consentono di istituire nel 1993 il Parco nazionale di Xingu che si estende per 180 mila chilometri quadrati e che registra la più elevata concentrazione di foreste tropicale del pianeta.

NELL’AREA VIVONO 5500 INDIOS DI 14 ETNIE differenti, un mosaico etnico e linguistico unico nel Brasile. Raoni aveva vinto la sua battaglia. La Costituzione varata nel 1988 veniva accolta con favore da Raoni e dalle comunità indigene, a cui si riconosceva il diritto di vivere nelle loro terre secondo la loro cultura e tradizioni. Ma il processo di demarcazione dei territori, che doveva completarsi nell’arco di 5 anni, è stato gravemente ostacolato e dopo 30 anni ne risultano assegnati solamente 436 su un totale di 1296. Una situazione intollerabile per le popolazioni indigene, sottoposte a continui attacchi ed invasioni. I nuovi diritti riconosciuti alle comunità indigene non sono bastati a fermare i progetti di sfruttamento dell’Amazzonia. La costruzione della centrale elettrica di Belo Monte sul fiume Xing, amato e protetto da Raoni e dalla sua comunità, rappresenta l’emblema della logica devastatrice portata avanti in nome dello sviluppo. Trenta anni di appelli, manifestazioni, sentenze giudiziarie, non sono riusciti a impedire che l’opera si realizzasse. Raoni ha combattuto con tutte le sue forze per spiegare che si trattava di un progetto insensato che andava a colpire comunità che hanno vissuto per secoli in quell’area. Più volte ha dichiarato che è disposto a morire pur di fermarlo. In Belo Monte è racchiusa tutta la storia del Brasile, le devastazioni ambientali, le violazioni sistematiche dei diritti umani, la commistione tra interessi pubblici e privati. Né Lula, né Dilma hanno avuto la forza e la volontà di bloccare la sua costruzione e questo ha prodotto una rottura insanabile con Raoni.

SONO STATI FREQUENTI, IN QUESTI ANNI, i viaggi all’estero del capo indigeno, sostenuto da associazioni ambientaliste e dei diritti umani e riconosciuto universalmente come il maggiore rappresentate per la difesa dell’Amazzonia e delle 305 comunità che vivono nel Brasile. Nel 2000, quando in Brasile si celebravano i 500 anni della sua scoperta, è a Parigi per denunciare ancora una volta la deforestazione dell’Amazzonia. «I popoli della foresta devono rimanere nella foresta e questa è l’unica condizione perché la foresta rimanga in piedi», affermava con forza nel denunciare le responsabilità dei paesi stranieri che favoriscono l’agrobusiness e l’accaparramento di legname.

L’avvento di Bolsonaro ha spinto Raoni a venire ancora in Europa per segnalare i gravi pericoli che l’Amazzonia e gli indigeni stanno correndo. Nel mese di maggio di quest’anno Raoni ha visitato per tre settimane numerosi paesi europei, incontrando in Italia Papa Francesco sui temi che il Sinodo per l’Amazzonia affronterà in Vaticano dal 6 al 27 ottobre.

ALLA FINE DI AGOSTO ERA AL G7 DI BIARRITZ (Francia) per portare un appello firmato da 58 associazioni della società civile brasiliana e in cui si denuncia l’aumento della deforestazione e degli incendi come conseguenza della politica ambientalista di Bolsonaro. Si chiede ai governanti di garantire meccanismi di controllo per evitare l’importazione di prodotti brasiliani ottenuti in aree di deforestazione e mediante violazione dei diritti umani. Bolsonaro non ha perso occasione per attaccare Raoni affermando che «questo indigeno non rappresenta nessuno e non è un capo del popolo brasiliano». Nell’ultima intervista, rilasciata all’Istituto Socio Ambientale Brasiliano (ISA), Raoni così replicava: «Bolsonaro dice cose orribili. Io appartengo a questa terra e sono un capo del mio popolo, che viveva su queste terre prima che gli antenati di Bolsonaro arrivassero per distruggerlo».