Come è noto, per la salvezza del mondo bisogna che ci si dedichi universalmente alle sole discipline STEM, rifuggendo dal dispersivo e costoso impiccio degli studi letterari. Prima che a questo fine gli studi umanistici vengano fatti morire d’inedia, forse qualcuno scriverà una storia della tesi di laurea. La storia cioè di come sorse e si sviluppò l’uso di concludere il percorso universitario con un «saggio finale», discusso pubblicamente. Prassi antica, ma che specialmente nell’Ottocento, e fino al secolo scorso, ha segnato la tappa conclusiva dello studio, secondo un modello che rinviava alla Germania.

Il posto della ricerca tedesca, soprattutto nelle discipline legate al mondo classico, è stato a lungo centrale, e chi iniziava la tesi constatava che sul tema assegnato esisteva infallibilmente un lavoro tedesco fondamentale: spesso una poco reperibile Inauguraldissertation, presentata decenni prima in qualche ateneo dal nome un poco oscuro, Regimontii o Griphiswaldiae. Dopo l’Unità, anche in Italia si ripensò l’università sul modello tedesco, e si affermò la prassi di provare le «competenze» acquisite con la stesura di una tesi, fosse una rassegna degli studi passati o una più impegnativa ricerca «originale». Era una sorta di rito di passaggio (cui taluno si sottraeva, lasciando incompiuto il percorso): celebrato dal celebre libro di Umberto Eco nel 1977, è però oggi in declino, sotto i colpi delle riforme «3+2» e della «nuova ricerca», ossia la rete. Per molti, la tesi era un momento importante. Le si dedicavano energie, con profitto vario. I lavori migliori diventavano talora un libro, qualche volta importante. Per questo, di molte figure della nostra cultura è interessante rintracciare (se possibile) e studiare la dissertazione di laurea.

Ritrovata e disponibile a stampa è la (non indimenticabile) tesi su Alceo, che Pascoli presentò nel 1882 a Bologna; superstite e pubblicata la tesi su Walt Whitman, che Pavese discusse a Torino nel 1930. A Pisa si è rintracciata la tesi di Gentile, del 1898, ma anche quelle di Fermi e Rubbia: e molto altro si caverebbe dagli atenei, se alcuni tra essi non occultassero il materiale in archivi sempre inaccessibili, talora provvidenzialmente alluvionati. Ma in fondo, che cosa si va a cercare in quelle tesi? Non sempre il futuro studioso è speciale agli inizi: nemmeno Leopardi, da fanciullo, poetò sempre col favore di Apollo. Pure, le foto giovanili attirano, e vi si cercano i segni del genio che verrà.

Di Giorgio Pasquali (1885-1952), il più grande filologo classico che l’Italia abbia avuto, si è cercata a lungo la tesi di laurea, discussa a Roma nel 1907, come una tappa iniziale del percorso di studi. Pasquali ha infatti segnato, attraverso il magistero proprio e dei suoi molti e celebri allievi, gli sviluppi della filologia nostrana (e non solo per i classici greco-romani). Né dagli archivi della «Sapienza», né altrove, la tesi è però emersa: ma da presso l’Accademia della Crusca sono state recuperate di recente pagine che certamente di quel lavoro erano parte: o come stesura preparatoria o, meno probabilmente, come abbozzo di studio successivo, tratto dalla dissertazione medesima. In ogni caso, una (ri)scoperta notevole, resa possibile, oggi ancora, dalla (defunta) civiltà degli archivi e degli «scartafacci»: domani, a questo tipo di ricerche si opporranno inaccessibili e impersonali data-base digitali. Ecco dunque Giorgio Pasquali, La commedia mitologica e i suoi precedenti nella letteratura greca (a cura di Anna Di Giglio, Accademia Fiorentina di Papirologia e di Studi sul Mondo Antico, pp. XVIII-108, € 50,00). Tre capitoli (forse c’era dell’altro, non reperito), dedicati alla ricerca dei «precedenti» poetici e drammatici dei testi comici greci basati su personaggi del mito, e non su individui comuni: in principio sta Omero, o meglio il poemetto omerizzante sulla Battaglia delle rane e dei topi, che tanto piaceva a Leopardi; poi uno studio sui frammenti della commedia «dorica» (ossia dei mimi, della farsa e dei testi di Epicarmo), e infine un panorama sui testi comici ateniesi con parodia mitologica, messi in scena prima di Aristofane.

Diversamente da Pascoli, che nella tesi aveva scelto di studiare Alceo senza «zavorra di pesante erudizione» (come scrisse il relatore), Pasquali giovane esibisce una sapienza tecnica notevole. Ciò non stupisce: alla data della discussione, egli aveva già all’attivo alcune pubblicazioni a stampa. Si nota la matura sicurezza con cui si muove tra campi assai differenti: filologia e glottologia, storia letteraria e storia delle religioni, archeologia e metrica classica, etnografia e mitografia. Pasquali maneggia i grandi contributi e i lavori recenti, e rispetto a studiosi di nome si pone alla pari, talora al di sopra: «Quanto alla memoria di A. Kirchhoff (…) il silenzio è il miglior tributo di rispetto che possiamo dare al vecchio e benemerito studioso». Tale giudizio, verso uno studioso anziano (1826-1908), autore di lavori che ancora si consultano, non nasce da irruenza giovanile, quanto da certezza nel metodo. La stessa che induce a citare lavori quasi esclusivamente di studiosi tedeschi: segno della profonda consonanza di approccio, che avrebbe portato Pasquali non solo a studiare, ma anche a insegnare, tra il 1912 e il 1915, a Göttingen. Vero è che l’Italia umbertina si era sprovincializzata, chiamando professori tedeschi a insegnare da noi la scienza dell’antichità, ma vero è pure che a Pasquali fu rinfacciato di scrivere «male», in un italiano tedeschizzante (oggi, invece, scrivere in itanglese è sicura premessa di rapide carriere). In lui il rigore filologico si accompagnò sempre all’apertura verso la concretezza, valorizzata qui nella presentazione di Walter Lapini. Per spiegare fatti remoti e mal documentati, per interpretare l’iconografia di raffigurazioni vascolari, Pasquali ricorre all’analogia con culture diverse da quella greco-romana, o con giochi veduti a Roma «nella mia giovinezza» (!). La realtà dello spettacolo antico è evocata attraverso il richiamo al teatro contemporaneo e all’operetta, la satira viene spiegata con l’opera di un vignettista contemporaneo. Ecco perché Pasquali fu congeniale interprete della commedia di Plauto (per la «Treccani» nel 1935): anche oggi, la vivacità del suo argomentare conta più della più recente teoria sul soggetto di quella remota dissertazione.

Ogni tesi di laurea aveva un altro aspetto decisivo: il relatore. Pasquali lavorò con Nicola Festa (1866-1940), professore alla «Sapienza», filologo di testi greci, bizantini e moderni, che gli trasmise forse l’idea che il miglior filologo «deve esser cosi ottimo grecista come perfetto bizantinista». Certo, risulta che i rapporti tra i due rimasero freddi e formali; d’altra parte, nelle università, gli allievi si pongono verso i maestri in modi che tradizionalmente possono andare dalla filiale devozione al parricidio edipico. Nicola Festa non è oggi un nome molto noto: lo si ricorda perché allievo di Pascoli nella natia Matera, o anche per la sua (legnosa) traduzione in latino di tre discorsi di Mussolini, pubblicata nel 1936. Ma i suoi studi di manoscritti e le edizioni critiche (compreso il poema petrarchesco Africa) gli assicurano un posto importante negli studi. Sulla sua figura, una luce indiretta viene ora dalla individuazione, nella biblioteca umanistica dell’Università di Bari, di una notevole quantità di libri ed estratti, provenienti appunto dalla biblioteca privata di Festa e pervenuti all’ateneo all’inizio degli anni cinquanta.

Tra biblioteconomia e storia degli studi, la vicenda è studiata da Nunzio Bianchi in La biblioteca del filologo I libri ritrovati di Nicola Festa (Bari, Edizioni di Pagina, pp. XI-154, € 18,00). Poiché il fondo non era rimasto unito, ma era stato smembrato secondo le esigenze dell’allora Istituto di Filologia Classica, il recupero è stato possibile a partire da documenti d’archivio. Sono stati riconosciuti così volumi con dediche, o annotazioni, che rinviano alle relazioni e all’attività dello studioso. Certo, il materiale non è completo, né si conosce il destino di altre parti di quella biblioteca: ciò impedisce una visione d’insieme, ma consente pur sempre uno spunto di analisi (per esempio, sui vari interessi di Festa). Il recupero del fondo e la pubblicazione del suo regesto è un gesto meritorio, che fa pensare. Il destino delle raccolte private pervenute alle biblioteche, per acquisto o dono, è assai vario. A casi esemplari di conservazione e studio se ne oppongono altri di oblio, se non peggio. La mancanza di spazi, che pare affliggere le biblioteche odierne, genera rigetti e scarti. Di qualche lascito a note istituzioni la stampa ha potuto documentare una fine opposta a quella auspicata dai donatori, e pari invece a quella toccata alla biblioteca di don Ferrante: il finire cioè «dispersa su per i muriccioli». Fortunatamente, il progresso risolverà il problema, in presenza solo di pdf asettici e libri elettronici, senza note di possesso o dediche personali. Tutto lavoro risparmiato. Per sempre.