Tra i molti pregi che si possono attribuire ai libri dialogati di Jacques Rancière – una buona parte della sua produzione, da vent’anni a questa parte – c’è senza dubbio la grande capacità di continuare a mettersi in gioco, di tornare a verificare le ipotesi messe in campo, di credere nella pratica di confronto che molti tra i suoi più giovani interlocutori non smettono di intraprendere con lui e con il suo pensiero. È una parte importante di quel metodo dell’uguaglianza che era il titolo di uno dei suoi più bei libri di conversazioni e che è esplorato nel recente Les mots et les torts, appena pubblicato in Francia dall’editore La fabrique. Il libro è l’esito di una serie di conversazioni che Rancière ha intrattenuto con uno dei suoi traduttori spagnoli, l’eclettico filosofo del linguaggio Javier Bassas, nell’ambito di un ciclo di seminari ospitati dal Museu de La Virreina di Barcelona sotto la feconda direzione di Valentín Roma. Il titolo riecheggia esplicitamente uno dei testi più celebri di Foucault, un pensatore che Rancière non esita a dichiarare come uno dei suoi riferimenti diretti e a riconoscere come un alleato nel tentativo di rimescolare di continuo i confini dell’indagine filosofica. Ma in questo libro, snello e denso, l’indagine sul linguaggio si confronta non già foucaultianamente con le cose, bensì con quei torti che sono l’elemento fondamentale del dissenso, ovvero ciò che rappresenta secondo Rancière il cuore della politica. Basterebbe già questo, sarebbe sufficiente continuare a riflettere su questo specifico punto – che Rancière esplora da molti anni – per mettersi a leggere questo nuovo dialogo, pubblicato nel 2019 in spagnolo con il titolo El litigio de las palabras, e che misura le prossimità e le distanze tra il filosofo francese e le espressioni più significative della filosofia del ventesimo secolo.

La novità consiste però nel fatto che la produzione stessa di Rancière è ripercorsa qui sotto l’angolo specifico di un’interrogazione sulla parola e sulla scrittura, nei rapporti che esse costruiscono con l’uguaglianza, con l’emancipazione e con le immagini, ovvero tre temi centrali della riflessione del filosofo. Assistiamo così al tentativo di entrare nell’officina di un ricercatore sempre in agguato che non cessa di voler costruire ponti tra registri e mondi eterogenei, di operare spostamenti, di sabotare ogni identificazione rigida dei saperi e di trasformare gli steccati delle discipline in direzione dell’apertura di campi e potenzialità inesplorate. «La scrittura è un’arma di cui occorre sviluppare la potenza egualitaria», dice Rancière, muovendo contro ogni resa incondizionata alle necessità della comunicazione o alle urgenze dell’attualità. E ribadisce come sia il lavoro di ricerca a produrre il pensiero: raccontando quella che è la sua pratica, senza pretese o prescrizioni, Rancière traccia la possibilità di trovare nei testi un grande spazio di libertà, e di conseguenza uno spazio di azione. Nei testi, nella scrittura: è interessante e ha fatto bene Bassas a comprendere l’importanza di esplorare il cortocircuito che si innesca in questa come in altre conversazioni, elementi fondamentali dell’elaborazione teorica di Rancière. Un’elaborazione che se da un lato si nutre del corpo a corpo diretto con opere, situazioni e produzioni concrete, dall’altro si articola attraverso il confronto teorico e dialogato con alcuni interlocutori che ripartono da quei testi per chiarire, estendere e precisare i discorsi intrapresi. Una pratica che ha dato origine a concetti e opere celebri di Rancière come il libro intitolato La partizione del sensibile (pubblicato in Italia da Deriveapprodi), considerato centrale nella sua analisi dei rapporti che intercorrono tra estetica e politica.
Les mots et les torts è un testo da leggere con attenzione, fin nelle pieghe di discorsi in cui riecheggiano visioni solitamente distanti dalla prospettiva di Rancière; come quella che vedeva Deleuze affermare, nel suo dialogo con Claire Parnet nell’Abécédaire, che la parola orale ha costitutivamente qualcosa di sporco, mentre la scrittura è pulita.

Affermazioni che sembrano riemergere nelle pagine in cui Rancière suggerisce che «la scrittura è ben più che una pratica di trascrizione della parola: essa è una forma di partizione del sensibile che crea l’uguaglianza, e si contrappone dunque a quelle posizioni di enunciazione e di ascolto che la negano o la ignorano», sottolineando dunque la mobilità e l’imprevedibilità degli effetti delle parole scritte e gli usi che se ne possono fare: prenderle in prestito, rivoltarle, appropriarsene, modificarle, cambiarne l’uso e la destinazione, rivolgerle a persone alle quali non erano destinate. In nient’altro consiste per Rancière l’essenza della lotta politica e per questa ragione, mostrando tutta la sua distanza dal pensiero di Derrida, propone di identificare la lingua della politica, l’idioma egalitario, «come un linguaggio preso a prestito», quasi a scavare una lingua straniera all’interno della lingua stessa.

L’ultima parte del libro riprende il concetto di frase-immagine che Rancière aveva utilizzato nel Destino delle immagini e non più ripreso altrove, ma soprattutto affronta esplicitamente la questione di quello che Francesco Orlando avrebbe definito il tasso di figuralità della scrittura filosofica, a confronto con quella letteraria. Se tanto la filosofia quanto la letteratura utilizzano parole, figure, metafore e immagini, la sperimentazione filosofica proposta da Rancière si propone di strappare i termini e gli enunciati al loro campo semantico ordinario e di esplorare gli scarti rispetto all’uso consensuale del linguaggio, provando a valorizzare l’improprietà dei termini, la mescolanza dei generi, l’ibridazione dei discorsi. A quale scopo? Quello di creare – o meglio di costruire, ovvero di restituire – un mondo comune al di là delle divisioni, che oltrepassi la considerazione ordinaria di ciò che solitamente è considerato possibile o non possibile fare.

Un uso delle parole che, a partire dal riconoscimento della comune intelligenza degli esseri umani e dalla scommessa sull’importanza dell’emancipazione, è volto cioè alla condivisione e non al dominio.