«Vengo dall’area urbana di Talkha, che è unita alla città di Mansoura da questo ponte dei primi del novecento che da bambino vedevo ogni giorno. Posso assicurarti che la musica è rimasta a lungo lontanissima da me, nonostante in casa sia i genitori che i fratelli ne fossero appassionati. Tieni conto che mio padre era al contempo manager e direttore di una wedding band e mi portava con lui a queste feste di matrimonio, dove la cosa più interessante per me non era la musica, ma divertirmi. In adolescenza  sono cambiate le cose, quando misi le mani sulla chitarra emulando un amico: ricordo che quando avvicinai la chitarra al petto ebbi una sensazione di benessere».

Così Ramy Essam, il cantore della rivoluzione di piazza Tahrir al Cairo nel 2011 e oggi artista di calibro internazionale, racconta la sua iniziazione. Lo abbiamo incontrato in occasione dell’assegnazione dal Club Tenco del premio «Grup Yorum», destinato agli artisti che si sono contraddistinti per l’attivismo in favore dei diritti umani. Un riconoscimento legato alla canzone Balaha del febbraio 2018, un’aperta critica del rocker al presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, pubblicata un mese prima della sua rielezione con percentuali bulgare.

 

 

Per quel brano vennero incarcerate sette persone, tra cui il poeta Galal al-Beheiri autore delle liriche e il web designer Mustafa Gamal. Sono entrambi ancora in carcere. Ma ancor più drammatica è la storia del giovane regista Shady Habash, reo di aver realizzato il montaggio del video di Bahalae. Dopo circa 800 giorni nel carcere di Tora, lo stesso di Patrick Zaki, è morto il 1 maggio 2020 per «negligenza medica». In sua memoria, Essam ha pubblicato Prison Doesn’t Kill / The Last Letter of Shady Habash, una lancinante e potente tessitura electro-rock da cui emerge l’ultimo manoscritto del giovane recluso.

 

 

Nel percorso di vita del rocker, partendo da una prospettiva personale e artistica si giunge ad una narrazione collettiva, emblematica della generazione che è stata motore della rivoluzione del 2011: «I tre anni che precedono Tahrir mi hanno fatto diventare quel che sono, trasformandomi da semplice cantante pop a musicista consapevole. A mio fratello Shady devo il reale interesse per la musica, mi ha fatto conoscere gruppi determinanti come Linkin Park, Nirvana, System Of A Down e Rage Against The Machine. Ad Amgad El Qahwagy, uno dei migliori poeti che abbia mai letto, va il merito di avermi fatto conoscere la poesia araba ed egiziana di stampo politico, con i suoi testi in arabo classico e linguaggio di strada. Tutto questo mi ha spinto a diventare un cantante. Ne ebbi la conferma nel Capodanno 2011, suonando in un teatro davanti a tremila persone. Un mese dopo presi parte alla rivoluzione».

In poche settimane le cose cambiarono radicalmente, non solo per Essam e per l’agonizzante stagione di Hosni Mubārak: «Arrivai da Mansoura a piazza Tahrir il 31 gennaio con un amico – racconta -. Non c’era nemmeno un palco, era tutto molto calmo. Fu il primo giorno ufficiale del sit-in con persone giunte nella capitale da città diverse. Presi la chitarra e suonai varie volte, girovagando tra la folla e le tende per provare a far emergere le vibrazioni e l’energia che percepivo. Mentre cantavo, avevo la sensazione di essere parte di qualcosa di forte. Era il preludio del giorno dopo: il primo febbraio, quando salii sul palco per la prima volta e cantai davanti a un centinaio di migliaia di persone fu un’emozione incredibile, mai provata. Vedevo donne e uomini provenienti da contesti diversi, comportarsi come se fossero un unico essere umano mentre insieme, cantavamo per ottenere la libertà e i diritti civili. Una sensazione pura e bellissima di cui mi sentivo parte. Oltre le venticinque canzoni che avevo, lavorai anche ad altre, tra cui Irhal che composi in piazza».

 

 

Dopo la caduta di Mubārak, parte dei manifestanti e lo stesso Essam continuano la protesta un ulteriore sit-in, il 9 marzo, che per lui finisce male. «Con altre 200 persone sono stato preso e torturato per otto ore, nell’area antistante il Museo nazionale egizio. Mi tolsero i vestiti, tagliarono i capelli, ruppero gli occhiali. Sono impazziti, ci hanno pestato con calci, pugni e bastonate, schiacciato la testa saltandoci sopra, torturato con dei punteruoli elettrificati. Cercavano di spezzarti lo spirito insultando e urlando per tutto il tempo. Utilizzavano qualsiasi mezzo schifoso per farti arrendere. Per otto lunghissime ore sono stato colpito a morte, ma sono sopravvissuto. E alla fine io sono stato rilasciato, solo perché le mie condizioni fisiche erano pessime».

Essam ha lasciato l’Egitto il 25 agosto 2014 e oggi vive in Scandinavia, dove prosegue la sua attività di musicista ed al contempo di voce dissenziente nei confronti dell’attuale governo egiziano, come testimonia una florida carriera discografica espressa fino ad oggi in quattro album e una lunga serie di singoli, da Bread Freedom e Taty Taty del 2011 a Foul Caviar del 2015, Segn Bel Alwan del 2016, El Geel El Fosfaty e A Letter To The UN Security Council del 2017. Sempre nello stesso prolifico anno prende corpo anche la collaborazione con Pj Harvey in The Camp: «Ho avuto l’occasione di sedermi con lei, di parlare e lavorare insieme. Possiede una delle voci che più apprezzo».

 

Ramy Essam (foto di Patrick Fore)

Anche i due nuovi brani che anticipano l’album The Flannel Shirt, fuori nei prossimi mesi, hanno riscontrato una ottima risposta. Proprio la title-track è un omaggio ai mille giorni di detenzione dell’amico e poeta Galal al-Beheiri, una ballata malinconica e morbida dove la voce di Essam si esalta al meglio: «Il disco, dedicato a  al-Behiri mescola elettronica, industrial e rock. È stato composto negli ultimi due anni, ovvero nel periodo immediatamente successivo a Balaha. Sono rimasto in silenzio a causa di ciò che è successo dopo la diffusione della canzone, non volevo che qualcun altro venisse catturato quando il regime è impazzito. Mi sono quindi dedicato alla scrittura e, per la prima volta, alla produzione. Oltre questo ho in realtà un altro album completato, ma non editato. Ho deciso di bloccare la pubblicazione inizialmente prevista nel 2018, a causa degli eventi che accadevano all’epoca in Egitto. Molti dei poeti che hanno partecipato sono ancora in libertà e se lo rendessi pubblico, rischierebbero moltissimo. Non posso permettere che accada. In futuro vedrò che farne. Credo che sia il mio miglior disco di sempre».

Malgrado la distanza, Essam continua ancora a seguire giornalmente la situazione politica e sociale in Egitto: «Abbiamo a che fare con un brutale regime che reprime la libertà di opinione e qualsiasi possibilità di costituire un’opposizione. Per tutelare ogni espressione artistica, le persone hanno iniziato ad autocensurarsi, per restare al sicuro, avere un certo livello di sostenibilità e mantenere una carriera professionale. È comprensibile. Credo comunque che la lotta sia ancora in corso, forse diversa da quella del 2011 e 2013, ma continua. Lo strumento migliore che abbiamo è l’arte. E anche se quella di stampo politico non è più fiorente, io continuo per questa strada e ho fiducia e consapevolezza che non sono solo. Abbiamo un vasto patrimonio di esperienze che ci aiuterà a proseguire e aiuterà le giovani generazioni a capire ciò che è accaduto, di cosa abbiamo bisogno e da lì prendere coraggio e forza. Questo – conclude – ci condurrà alla prossima ondata, quando le persone torneranno in piazza. Spero che quando arriverà questo giorno, saremo ancora più pronti e preparati».