Un paio di forbici luccica dentro un cestino da lavoro. Il cestino è posato sulle ginocchia di una giovane donna seduta nell’atrio di un grande albergo. Davanti a lei una bambina di cinque o sei anni. La donna è la governante della bambina. Tutto appare quieto nella scena, finché la bambina afferra le forbici allungandole verso un divano. «Ecco, sono libera, l’eccitazione, l’esaltazione mi fa tendere il braccio, affondo la punta delle forbici con tutte le mie forze, la seta cede, si strappa, io lacero lo schienale dall’alto in basso», scrive Nathalie Sarraute raccontandondosi in Infanzia (1983). Molti anni dopo, l’episodio sarà rievocato da Fabrizia Ramondino nella rubrica di recensioni che firma su «L’Espresso»: quell’episodio le sembra addirittura risplendere «profetico per tutta l’opera della futura scrittrice», poiché «in tutte le sue numerose opere» sempre Sarraute ha «strappato la superficie delle cose e delle convenzioni sociali per svelarci l’informe e il taciuto che nascondono».
Toccare l’infanzia nelle pagine degli altri significa per Ramondino affrontare uno dei temi più persistenti e scoperti delle proprie. Le parole che sceglie in questo caso si direbbero però anche ritagliare una trasversale dichiarazione di poetica, se descrivono con geometria esatta i suoi stessi libri, così lontani nella forma da quelli di Sarraute, ma allo stesso modo imprevedibili, irriverenti, trasgressivi. Né si direbbe casuale che un paio di forbici abbia attirato la sua attenzione di lettrice, se un paio di forbici guizza in mano alla bambina Nuria in uno dei racconti di Storie di patio, il suo secondo volume di narrativa, uscito come Infanzia nel 1983. In questo caso la bambina le afferra in una stanza di casa sua dal tavolo su cui stira la sarta a giornata, poi ne infila le punte nella presa di corrente. Il dolore che prova, l’urlo che le esce dalla bocca sono il segno della vitalità e insieme della ribellione inscritte in ogni suo lavoro, della disobbedienza che smaschera non solo le menzogne degli adulti, ma perfino quelle del potere.
È una scena che Ramondino sceglierà di riproporre quasi vent’anni dopo, narrata questa volta in prima persona da una bambina che porta il suo stesso nome o più spesso il famigliare nomignolo Titita, nell’autobiografico quanto fantastico e lussureggiante Guerra d’infanzia e di Spagna, uscito da Einaudi nel 2001 e ora riedito da Fazi («Le Strade», prefazione di Nadia Terranova, pp. 502, €18,50). «Dico che la scrittura è sempre una separazione dal corpo, e questo per le donne artiste ha un prezzo più alto… Certamente per lungo tempo io ho privilegiato l’aspetto intellettuale, e comunque a me è costata una tale fatica affermare la libertà di scelta rispetto ai modelli femminili tradizionali che, sì, è stata una specie di guerra» dichiarava in un’intervista rilasciata subito dopo la pubblicazione di Passaggio a Trieste (2000), il suo coraggioso reportage dal basagliano Centro Donna Salute Mentale, anticipando almeno in parte la natura di quella «guerra» scolpita nel titolo, così picaresco e misterioso, del libro apparso l’anno successivo. È infatti la guerra intrapresa dall’autrice già durante l’infanzia, attraverso la scoperta del potere custodito nella propria immaginazione come dei limiti incisi nel proprio corpo, per sottrarsi «a un destino di donna», così aveva scritto in Star di casa (1991), «che il suo ambiente le destinava». La promessa annunciata nel titolo di una guerra anche spagnola allude invece al luogo e al tempo in cui l’azione si svolge: l’isola di Maiorca tra il 1937 e il 1943.
Nata nel ’36 a Napoli, città che la bambina Titita immagina simile a «una freccia dorata puntata contro il sole» o a «una festa di lucciole sul mare», Fabrizia Ramondino aveva seguito nel ’37 i genitori a Maiorca, dove il padre era stato inviato quale primo console d’Italia da Galeazzo Ciano. Nell’isola, diventata in piena guerra civile una base strategica per le mire di espansione del fascismo oltre che una roccaforte dell’aviazione nazionalista, rimarrà fino all’armistizio, quando l’opzione per il governo regio espressa dal padre, poi internato dall’esercito inglese in un campo di prigionia a Tangeri, renderà necessario il rimpatrio della famiglia, accresciutasi intanto di un fratello e una sorella. Sfavillante gemello maiorchino e insieme antefatto di Althénopis (1981) – il sorprendente volume d’esordio che narra i successivi anni napoletani –, Guerra d’infanzia e di Spagna ripete in chiusura la stessa immagine fissata in apertura del primo libro. Dal parapetto della nave la madre getta in mare le chiavi della bizzarra casa di Maiorca, pronunciando una frase che oltre a scandire la fine dell’infanzia ostruisce per sempre l’ingresso di quel mondo incantato: «Come siamo stati felici qui, non lo saremo mai più!».
Risulta tuttavia assai poco fiabesca, per quanto fiammeggiante e rigoglioso vi si dispieghi il suo immaginario, l’infanzia isolana rievocata da Ramondino. «È un’infanzia ripensata senza dolcezza, senza tenerezza e senza lagrime. È un’infanzia forte, curiosa, sfrontata, severa nel giudizio, pronta a scegliere ciò che ripudia e ciò che predilige, ciò che odia e ciò che ama» scriveva Natalia Ginzburg nel risvolto firmato per Althénopis. Strutturato in cinque parti, ognuna delle quali introduce uno spostamento più o meno percettibile di sfondo (peccato che l’attuale edizione ometta l’indice presente invece in quella originale), Guerra d’infanzia e di Spagna ricostruisce il tempo in cui la bambina Titita scopre la propria diversità e legge dentro di sé un vitale desiderio di fuga confuso al doloroso bisogno di mettere radici; osserva la conflittualità delle relazioni famigliari, impara dalla differenza dei linguaggi che ascolta la doppiezza celata in ogni cosa e insieme la disparità delle «classi sociali». Sono le contraddizioni, riflette l’autrice, che hanno «condizionato» tutta la sua vita, ma a cui senza dubbio si deve il lungo impegno politico e sociale dalla parte dei «poveri» che l’ha contraddistinta. Forse anche la forma anfibia, «di confine fra romanzo e saggio, tra romanzo e meditazione» che ha da sempre scelto per sé: «Io non voglio essere prigioniera del pensiero puro, così come non voglio, in quanto donna, essere pura natura. Scrivere in questa forma significa per me stare su un confine, cercare una mediazione» ha spiegato a Laura Lepri in un’intervista del 1995.
Si attestano lungo questo trasgressivo «confine» le inclinazioni formali più vistose nella scrittura così inquieta e ribelle di Fabrizia Ramondino: la cadenza speculativa, l’eloquio fastoso ma insieme analitico, il gusto di una ricerca lessicale in cui respira la padronanza di molte lingue. «Quel senso di perfezione non più perfettibile che provavo alla fine del gioco, quando la figura era stata ricostruita per intero e risultava identica al foglio guida, raramente la provo oggi nel ricostruire le cose della mia infanzia. Avverto piuttosto, nell’affrontare questa ricerca, la stessa inadeguatezza che provavo nel tentare i puzzle più difficili, dinanzi ai quali a volte mi ritiravo sconfitta o, con tranquilla mania, staccavo dal cubo di legno brandelli di carta colorata, per poi scoprire, sotto, una superficie grigia e porosa, simile a quel vuoto mentale che a volte mi coglie» leggiamo quasi in forma di viatico nelle pagine iniziali di Guerra di infanzia e di Spagna.
La bambina Titita impara a Maiorca anche il legame esatto tra il tempo e lo spazio, si raddoppia la separazione dall’isola, accade insieme nello spazio e nel tempo: la curva che porta verso la casa perdutamente amata di Son Batle diventa sempre più «fragile e trasparente, eppure insuperabile» perché nel tempo riposa. «È possibile che una curva che conduce indietro rimanga tracciata nell’animo per tutta una vita?» si chiede una voce che forse appartiene ancora alla bambina o forse alla scrittrice ormai adulta. Fabrizia Ramondino è morta il 23 giugno 2008 sulla spiaggia di Sant’Agostino, vicino a Itri dove abitava dal 1990, dopo un bagno in mare. Chissà se aveva tentato di seguire quella curva fatta insieme di cristallo e di acqua.