La malattia dell’oggi si risolverebbe, secondo Ramón Andrés, in una errata assunzione del concetto di individuo, che si fa «ideologia di sé stesso» invece che parte di un insieme, contrapposto agli altri invece che dialogante: lo scrive in Pensar y no caer (Pensare e non cadere, Acantilado, 2016) per dire che la stessa malattia affligge anche il sapere di oggi, diviso tra settori di competenza incomunicanti. Andrés sembra impersonare la figura del ricercatore rinascimentale e barocco: navarrese di nascita, parla il basco; ma anche il sumero, il greco, il latino, l’ebraico non gli sono estranei. La sua idea di fondo è che ogni attività umana tende al sapere: l’occhio guarda per conoscere, l’orecchio ascolta per individuare, il linguaggio parla per rendere conto anche di ciò che non ha parola. Poeta, musicista, musicologo, filosofo, scrittore, storico, filologo, Andrés rischia in ogni suo scritto di sconfinare in campi estranei all’assunto iniziale, e tuttavia riesce a tenere insieme le fila del discorso al quale tende, sommando riferimenti etnografici e filologici che chiariscono la complessità dei problemi con cui è necessario confrontarsi.

Nel saggio appena pubblicato da Adelphi, Il mondo nell’orecchio (traduzione di Maria Nicola, pp. 473, € 38,00) Andrés assume l’udito come strumento di conoscenza. Bach e Leibniz riconoscono nelle geometrie musicali la geometria del mondo. Già alla fine del Cinquecento la musica aveva scoperto la disarmonia dell’universo, la dissonanza, la «verità dell’espresso». La musica si fa «espressiva» – dice l’autore in Claudio Monteverdi «Lamento della Ninfa» (Acantilado, 2017) – sforzandosi non di esprimere i sentimenti (l’arte non è mai diretta espressione di qualcosa), bensì di rappresentarli, dare loro una forma sonora. Dunque, di nuovo, lo scopo è conoscerli, com’è inevitabile che sia anche quando si crede di abbandonarsi a un impulso irrazionale, magari di dominio.

A 55.000 anni fa risale un femore d’orso forato, scoperto nella grotta di Divije Babe, in Slovenia, oggi nel Museo Nazionale di Lubiana. A 36.000 anni fa flauti forati nei giacimenti di Gleissenklösterle, nel sud della Germania. A 20.000 anni fa il corno che tiene in mano – forse un amplificatore della voce – la cosiddetta Venere di Laussel, in Dordogna. E infine, tra molti altri esempi, a 13.500 anni fa la supposta rappresentazione di un arco musicale nelle mani di uno stregone dipinto nella grotta dei Trois Frères a Ariège, nel sud della Francia. Andrés ne parla in apertura del suo El mundo en el oido. El nacimiento de la música en la cultura, la cui traduzione italiana del titolo vuol essere metonimica ma non rende forse ragione della maggiore allusività al senso dell’udito del titolo spagnolo: è il prezzo che paga ogni traduzione.

Peccato che la tavola cronologica presente nell’originale sia stata espunta, perché fornisce un’ottima carrellata sul percorso del libro. Bibliografia e indice dei nomi sono rimasti, ma sono quasi una sola trascrizione della bibliografia spagnola, mentre adeguarla al lettore italiano sarebbe stato opportuno. Andrés scrive, da erudito qual è, in una lingua molto articolata, complessa, che si muove su più registri stilistici, da quello colloquiale a quello dotto, regalandoci una lettura fitta di citazioni, entusiasmante, di cui è stato abbassato, nella traduzione, il livello linguistico.

Le voci delle Muse
Partendo dai primi strumenti per catturare il suono, racconta via via il lungo percorso che – dal Tao a Platone, da Aristotele a Kant a Leibniz – ha portato, nelle varie civiltà, alla scoperta del suono, all’invenzione della musica. Il fondamento filosofico struttura ogni pagina, si direbbe ogni rigo del libro. Aristotele costruisce la conoscenza attraverso la percezione sensibile e ai cinque sensi Hegel dedica le sue Lezioni di estetica, un’arte per ogni senso. Musica e poesia, alle origini, sono le voci delle Muse, il suono che indaga e rivela il reale. Lo si riscontra tra le pieghe dei versi di poeti come Lucrezio, Pindaro, Alcmane e nella Bibbia, dove la parola e il suono sono rivelazione dell’innominabile. Dovunque, anche tra i Veda, è colta una disposizione a confrontarsi con l’esperienza del suono, con il mistero del senso dell’udito. Se l’uomo è l’unico vivente che parla, il suono è, per tutti, la voce di questa realtà. Nella musica si condensa l’atto con cui il suono, emesso o prodotto dall’uomo, si fa conoscenza della realtà che ci sfugge, in quanto lo si suppone speculare al suono della natura.

Tra i molti passi che soffrono di una traduzione tutt’altro che ineccepibile, quello di Lucrezio – «Imitar con la bocca le liquide voci dei volucri / fu in uso assai prima che gli uomini / modulassero versi leggeri sul canto / a dilettar l’orecchio» – dà modo a Andrés di sostenere come l’interpretazione della musica sia attività della conoscenza e non dell’emozione, apertura sempre incompleta all’inconoscibile. Il suono della natura si fa insomma voce della natura stessa, e dà corpo – parola chiave – al ritmo, alla danza, alla poesia, alla musica. Lo sciamano – e Orfeo è uno sciamano – entra in contatto con la voce dei morti, con il suono di un al di là: lo aveva ben compreso Rilke, infatti citato più volte.

Dal suono delle origini
Regolata da misure comprensibili, questa voce, questo suono ci restituiscono nel canto e nella musica l’ordine del mondo. L’idea di Pitagora, che intravide nel numero lo specchio, e dunque la congiunzione, tra ciò che accade sulla terra a ciò che accade nei cieli percorre i secoli, arriva a Leibniz, a Bach, a Xenakis. Dal suono delle origini, degli sciamani, all’evocazione del grido, attraverso la Mesopotamia, l’Egitto, Israele, la Grecia, nei secoli la musica, che sembrerebbe e forse è arte dell’immateriale, dell’invisibile, proprio grazie alla fisicità del suono, alla permanenza e alla evoluzione del corpo sonoro nel tempo, si fa rappresentazione, e forse, di più: rivelazione del corpo del mondo. È questa l’idea fissa di Andrés, la ragione di tutto il saggio: che la musica sia voce di ciò che non ha parola, che sia uno sconfinamento, l’irradiarsi di uno spazio dentro e intorno a noi, l’aprirsi di una nuova dimensione dell’esperienza, qualcosa che forse il mistico, immerso nel silenzio, comprende più del razionalista.

L’interiorità dell’esperienza, che sembrerebbe isolarsi dal mondo esterno, si fa invece comprensione delle sue leggi. Il miracolo della musica sta infatti nella sua inconfutabile razionalità, nella sua valenza di misura, anzitutto di sé stessa: «In quanto figlia della Memoria (Mnemosyne), la musica è sempre un ricordare il mondo, un riconoscersi in ciò che è stato. Inclusa la musica del futuro, la quale per destino avrà qualcosa dell’arcaico che c’è e ci sarà in noi», recita un aforisma di Andrés; che aggiunge: «abbiamo avuto bisogno del concetto di esattezza perché la finzione trovi la sua quadratura: niente può smettere di essere ciò che è» (Poesía reunida. Aforismos, Barcelona, Lumen, 2016).

Non è vero, dunque, che la musica è solo ciò che si percepisce, come vorrebbero molti avversari delle avanguardie novecentesche: Pitagora – ma anche Bach, Beethoven, Stockhausen – ci insegnano come ci sia un’intelaiatura, una legge, nei suoni che compongono una musica, che l’udito non percepisce, eppure sono il fondamento di ciò che si ascolta. La scrupolosa, fitta documentazione del carattere gnoseologico della musica percorsa nel saggio di Andrés lo mette tra gli indispensabili per tutti coloro che non si accontentino del trasporto edonistico, pure concesso, e intendano indagarne i suoi segreti nascosti e allo stesso tempo evidenti: i segreti dell’udito, un algoritmo celato del mondo, una sorta di matematica interiore di questo nostro senso.