Camminiamo tra le vie di Medinat Nassr, il rione della classe media egiziana a due passi da Heliopolis, divenuto il quartier generale dei Fratelli musulmani. Due manifestazioni distinte di islamisti si svolgono in queste strade: la prima intorno alla moschea Rabaa el-Adaweya per commemorare i martiri della strage di ieri, costata la vita a 54 sostenitori – secondo gli ultimi resoconti sanitari – della Fratellanza, la seconda a due passi dal palazzo della Guardia presidenziale, dove voci incontrollate vogliono sia detenuto Morsi. I carri armati dell’esercito sono schierati un chilometro prima dell’ingresso del palazzo. Il controllo delle forze di sicurezza è per la prima volta individuale e non sommario. Il filo spinato separa questa zona rossa dal resto della città. Dall’altro lato della barricata, si iniziano a vedere grandi poster pro-Morsi. Sono quasi tutti uomini, nelle file dei manifestanti sembrano nascondersi solo poche donne velate, spesso anziane, con bambini. Non ci sono donne senza veli o distinzioni sociali evidenti, è una folla omogenea, composta. Ma basta ricordare loro la strage del giorno prima che scoppiano le urla. «L’esercito e la polizia hanno sparato contro di noi senza ragione», inizia il giovane Khaled. Sono 650 le persone arrestate al Cairo a causa delle violenze di ieri, principalmente islamisti.

In ospedale, tra i feriti della strage

Ci avviciniamo all’ospedale di Medinat Nassr. «Chiunque gridasse “Morsi è il mio presidente” veniva colpito da un proiettile. Ho paura che lo uccidano, sono pronto a dare la mia vita per Morsi», ci spiega il giovane conducente dell’ambulanza che ha raccolto i primi feriti. Al primo piano del nosocomio si vedono decine di feriti. Uno di loro ci mostra un video in cui si vedono cadaveri stesi uno affianco all’altro. «Stanno tentando di denigrarci come hanno fatto con i giovani rivoluzionari, ora siamo dei “terroristi”, ieri hanno mostrato dei video in televisione relativi a scontri del 2011, per accusarci di detenere armi: è assurdo!».

A Tahrir, i Fratelli vengono descritti come khirfan (pecore) dai movimenti secolari. Qui le opposizioni sono considerate feloul (uomini del vecchio regime) o kuffar (infedeli).
Un inizio di Ramadan senza tregua per gli islamisti, che nonostante la principale festività religiosa (forse non è stato scelto a caso luglio dall’esercito per il colpo di stato), continueranno a manifestare. E a bocciare ogni tentativo di mediazione. Per il politico di lungo corso, Essam el-Arian, il piano di Mansour porta «indietro il paese al punto di partenza». Per questo il muro contro muro sulla formazione del governo prosegue.

Anche se i salafiti di El-Nour (luce) hanno ripreso a confrontarsi con le opposizioni sul nome del nuovo premier. E così, nel pomeriggio di ieri è stato nominato l’ex vicepremier e ministro delle Finanze del governo di Essam Sharaf, Hazem el-Beblawi. Il politico liberale è stato incaricato dal presidente ad interim Adly Mansour di formare il nuovo governo. Sono caduti i due nomi che circolavano nelle ultime ore: l’economista Bahaa el-Din e l’ex ministro dell’Economia Samir Radwan. Mentre Mohammed El-Baradei ha ottenuto un importante successo: ha mancato per un soffio la carica di premier ma è stato nominato vice presidente, quindi avrà un ruolo essenziale nella nuova fase di transizione.

«Nessuna provocazione»

I volti di questi attivisti sono pieni di astio, hanno attraversato tre giorni di battaglia, iniziata con l’assassinio ingiustificato di quattro uomini lo scorso venerdì, colpevoli solo di tenere tra le mani i poster di Morsi. La storia di Mohamed Sobhy ha dell’incredibile. Stava sistemando un poster dell’ex presidente sulle barricate di fil di ferro quando lo hanno colpito alla testa. Prima che l’immagine fosse diffusa da tutti i media internazionali nessuno credeva che questo giovane fosse morto così, ucciso dall’esercito. Questo gesto ha messo in luce in modo inequivocabile le responsabilità dell’esercito nell’uso della violenza.

Abdel ripercorre i momenti della strage di lunedì con le lacrime agli occhi. «Volevano ripulire l’ingresso del palazzo alle 4 del mattino, mentre molti di noi pregavano, la polizia militare ha attaccato da tre punti diversi, prima con lacrimogeni, poi con dei proiettili a pallettoni. Non c’è stata nessuna provocazione da parte nostra, nonostante l’esercito parli addirittura di terroristi armati», ci racconta con foga Adel. E a quel punto è avvenuta la carneficina. Fonti mediche parlano di colpi sparati alla rinfusa e cadaveri colpiti alla testa, al torace, nessuno sforzo è stato fatto per risparmiare delle vite. Adel è un fiume in piena. «Tutti hanno criticato il decreto di Morsi (del novembre 2011, ndr) che era un puro atto rivoluzionario. La dichiarazione di Mansour è invece inaccettabile, sovverte il voto popolare, sono dei nuovi dittatori», aggiunge ripetendo parole sentite altrove.

E paesi del Golfo fanno affari

Per i paesi del Golfo nulla è cambiato, nonostante la caduta di Morsi. La legge sui bond islamici è in vigore e il Qatar ha annunciato un ingente acquisto di sokuk sull’immenso patrimonio pubblico nazionale. Sono poi stati staccati gli assegni della linea di credito prevista dagli Emirati per un miliardo di dollari, con l’annuncio di altri due miliardi in arrivo. Questo darà un po’ di respiro alle casse in affanno del paese. Ma non placherà gli animi degli islamisti che, come nel 1941 (quando i leader del movimento Al-Banna e Al-Sukkari vennero arrestati e iniziò una mobilitazione senza precedenti), avevano tutto nelle loro mani ma da un momento all’altro non controllano più nulla.