Lamassu, il dio con il corpo di toro e le ali di aquila, osservava il viavai di uomini e topi, appesantiti dalla sabbia del deserto, dall’alto della monumentale porta di Nergal, a Ninive, popolosa capitale del regno assiro. Austero e saggio, Lamassu presagiva il futuro quando, con i palazzi ridotti in macerie da un feroce esercito invasore, la sua forma divina scolpita nella pietra sarebbe stata trascinata in trionfo tra le vie di imperi stranieri, oltraggiata ma anche temuta. Tutto ciò è successo più volte nel corso della storia, l’ultima il 29 gennaio 2015, quando i miliziani dell’autoproclamato Stato Islamico distrussero le mura dell’antica città. Ma mai Lamassu avrebbe immaginato che la sua curatissima barba sarebbe stata ricomposta con centinaia di bustine per l’imballaggio di prodotti alimentari riciclate. Adesso, questo Lamassu eco-friendly scruta un altro traffico, dalla posizione pur sempre privilegiata del Fourth Plint di Trafalgar Square, Londra. La scultura di Michael Rakowitz è stata presentata a marzo 2018, nell’ambito della prestigiosa commissione promossa dalla Royal Society of Arts. E un modello in scala minore ma non meno ieratico ci guarda da una teca, in una sala del Castello di Rivoli che, fino al 19 gennaio 2020, ospiterà Legatura imperfetta, ampia personale dedicata all’artista statunitense di origini irachene, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, Marianna Vecellio e Iwona Blazwick.
Assurnasirpal, grandiosità estetica
Il Lamassu è solo uno dei tanti artefatti perduti a causa degli eventi bellici, che Rakowitz ha in programma di catalogare e ricostruire. A partire dai rilievi dello sfarzoso Palazzo nordoccidentale di Nimrud, distrutto dall’Isis. Il re Assurnasirpal riceveva lì i suoi ospiti nel corso di lauti banchetti, e l’atmosfera di grandiosità estetica, per qualche oscuro nesso percettivo tra i luoghi e le epoche, si respira anche nel sinuoso corridoio che, ricavato in una sala del Castello di Rivoli, è animato da figure di guerrieri e divinità su sfondi ornamentali intricati e paradisiaci, cromaticamente vibranti e la cui trama è composta da bustine di ketchup e maionese.
Molti oggetti nascondono i fantasmi di tanti ricordi ma solo alcuni riescono a diventare tutt’uno con lo scorrere del tempo, risignificati senza soluzione di continuità. Con la proliferazione dei mercati, da quelli delle pulci all’e-commerce, la possibilità di accedere a questa particolare categoria di cose intrise di senso storico ready-made si è ampliata a dismisura. Per esempio, nel 2011, un set di piatti cinesi saccheggiati dal palazzo di Saddam Hussein durante la guerra in Iraq, in vendita su eBay, fu acquistato da Rakowitz, che ha fama di abile cuoco. Per darne prova, organizzò una performance culinaria in collaborazione con il Park Avenue, ristorante di Manhattan specializzato in new american cuisine. In quelle vettovaglie salite agli onori delle cronache per gli scontri Usa vs Iraq, fornitura di libagioni ormai spettrali, furono serviti sciroppo di datteri e thaini, specialità della cucina mediorientale. L’opera si intitolava Spoils, bottino di guerra. Non possiamo giudicare il sapore delle pietanze ma siamo certi che il cerchio del ragionamento si è chiuso con un perfetto gioco di incastri: i piatti hanno fatto ritorno in Iraq il 15 dicembre del 2011, giorno in cui le forze della Coalizione hanno lasciato il Paese.
Nato a New York nel 1973, da genitori iracheni, Michael Rakowitz attualmente vive e lavora a Chicago, dove insegna Teoria e Pratica dell’Arte presso la Northwestern University. Ha esposto in occasione di Documenta 13, a Kassel, e della 10ma Biennale di Istanbul, oltre che al MoMA PS1 di New York, alla Tate Modern di Londra e alla sede dell’Unesco di Parigi. Quella al Castello di Rivoli è la sua prima personale in Italia e riassume ordinatamente i vari passaggi della sua ricerca totalizzante, incalzante ma non convulsa, iniziata nel 1998, con un progetto per la realizzazione di strutture abitative gonfiabili e a basso costo per i senzatetto.
Sculture, disegni, installazioni, video, performance, ceramica, terracotta, latta, legno, vetro, si succedono nella sale seguendo il meticoloso metodo di Rakowitz, che ha attraversato il mondo, da est a ovest e ritorno, cercando oggetti e persone per dare forma alle sue opere. Come un collezionista rabdomante con la passione per l’enigmistica, Rakowitz nasconde per il piacere di trovare e di saper mostrare, intrecciando su un piano orizzontale migliaia di storie. Distanti nel tempo oppure in fieri non importa perché, sul suo piano, le epoche, i popoli, gli individui e i materiali coincidono. «Non si tratta di una ricerca accademica sul tempo, ma è un’allegoria, un processo che mi offre la possibilità di essere politicamente imprevedibile. Presento il tempo come un modo per il visitatore di costruire ponti, attraversando uno strano tour, in cui le persone sono più autorizzate a pensare in termini di prossimità», spiega l’artista.
Così, nel video in stop-motion The Ballad of Special Ops Cody, l’action figure di un marine statunitense tenta di dialogare con le statuette votive mesopotamiche conservate all’Istituto Orientale dell’Università di Chicago. Il soldato Cody – che parla con la voce del Sergente Gin McGill-Prather, veterana dell’Iraq – vorrebbe liberare quegli idoli di pietra che, però, rimangono in silenzio. Il riferimento è a un video fake diffuso da un gruppo di mujaheddin nel 2005, nel quale quello stesso giocattolo veniva spacciato per un prigioniero di guerra.
La maestria di Cezayiriliyan
L’ordito è ancora più complesso in The Flesh is Yours, the Bones are ours, lavoro del 2015 e acquisito per la collezione del Castello di Rivoli. L’installazione occupa un’intera sala ed è composta da vari elementi, tra i quali spiccano i calchi in gesso di decorazioni architettoniche delle facciate dei palazzi di Istanbul. Tra Ottocento e Novecento, infatti, molti edifici furono ricostruiti in stile liberty, grazie alla maestria dell’artigiano armeno Garabet Cezayiriliyan, autore della maggior parte dei fregi. Ma in quello stesso periodo, i contrasti tra l’Impero Ottomano e le minoranze etniche dovevano culminare nel genocidio armeno del 1915-’16. I calchi, realizzati in collaborazione con Kemal Cimbiz, allievo di Cezayiriliyan, sono ibridati alle ossa degli 80mila cani randagi di Istanbul ritrovati sull’isola di Sivriada, nel Bosforo, dove furono deportati nel 1910.
In questa narrazione in cui ogni materiale torna al suo posto, emerge il ricordo dell’attività di famiglia, che gestiva una società di import export, prima a Baghdad e poi a New York. Nel 2004, in pieno conflitto, Rakowitz riaprì l’esercizio, che era stato chiuso negli anni sessanta, reinterpretando i viaggi dei piccoli beni deperibili, i processi di spedizione e ricezione, come una metafora delle tribolazioni dei profughi. Il negozio, che ha sede a Brooklyn, è tuttora attivo. Il progetto è ancora in corso.