Le cose stavolta sembrano andare molto in fretta a Madrid. Se a gennaio il risultato elettorale aveva bloccato per settimane l’inizio delle trattative, e fu Pedro Sánchez a sbloccare il conto alla rovescia per arrivare a nuove elezioni prendendosi la responsabilità di provare a formare un governo, stavolta Mariano Rajoy mostra un’inusuale iperattività. Il Parlamento si riunirà in prima seduta il 19 luglio, ma il presidente popolare sta già sondando i partiti alla ricerca dei voti necessari per superare lo scoglio dell’investitura. L’altra volta erano passate varie settimane dopo la nomina del presidente del Congresso – che è la persona che formalmente consegna al re la lista dei partiti da consultare – prima che ci fosse un tentativo di investitura.

Rajoy invece ieri si è già visto con il minuscolo partito – ha solo una deputata – di Coalición Canaria, e oggi si vedrà con i catalani di Esquerra Republicana. Ma questa prima riunione pubblica – sembra ce ne siano di «discrete» – è più rilevante di quanto non appaia. Il partito governa le isole canarie e le classiche richieste per l’appoggio – in sostanza, più soldi – sono molto più assumibili di quelle che potrebbero fare i catalani e i baschi. Il Pp, se avesse l’appoggio di Ciudadanos, arriverebbe a sommare 169 seggi. Aggiungendo i 5 seggi dei nazionalisti baschi del Pnv più la deputata canaria arriverebbe a 175. E a questo punto basterebbe una sola astensione nelle file avversarie per superare il quorum in seconda votazione. I baschi del Pnv – anche loro al governo nella rispettiva comunità – hanno cambiato strategia. Se all’inizio dicevano che non erano disposti a negoziare con il Pp, ora – con in mente le prossime elezioni basche in autunno – hanno già mandato cahiers de doléances a Rajoy, entrando a gamba tesa dove fa più male, con la parola tabù: Eta.

Il Pp in questi 4 anni ha fatto finta di vivere ancora nell’epoca in cui l’Eta era attiva e non ha voluto toccare una virgola nella legislazione antiterrorista. Il Pnv ha invece chiesto, fra le altre misure di «pacificazione», l’avvicinamento dei terroristi in carcere, una misura che il Pp si è sempre rifiutato di prendere in considerazione. Ma oggi il Pp si mostra possibilista sul fatto di trasferire la competenza sulle carceri al governo autonomico. D’altra parte Ciudadanos ha fatto sapere di non essere disposto a discutere con il Pnv, e men che meno se si parla di ex terroristi. Ma C in questi mesi ha modificato così tante volte le proprie «linee rosse» che è probabile che saprà accontentarsi di un piatto di lenticchie.

Rimane aperto il caso del Psoe. Sabato ci sarà un Comitato Federale che sarà chiave per capire l’aria che tira. Pedro Sánchez è desaparecido da una settimana. Da ieri ha iniziato a vedersi, in privato, coi vari maggiorenti del partito per capire che posizione vincerà sabato. Il tutto nel mezzo di una guerra di potere interna in vista del prossimo congresso. Formalmente il Psoe è contrario ad appoggiare Rajoy, neppure con l’astensione. Su questo tutti si dicono d’accordo. Ma poi trapelano sfumature: magari a partire dalla seconda votazione (i socialisti baschi), è peggio non avere un governo (socialisti dell’Extremadura), e così via. La questione è che tutti danno per scontato che i socialisti finiranno per cedere, pur rimanendo all’opposizione. In fondo, basterebbe un’astensione, o un’assenza strategica il giorno del voto.

Anche Unidos Podemos sembra aver rinunciato alla velleità di costruire da sinistra un’alternativa a Rajoy (che necessariamente passerebbe da Ciudadanos). Tranne la combattiva leader andalusa Teresa Rodríguez, gli altri nel partito sembrano aver accettato l’idea di una lunga traversata del deserto all’opposizione. I due massimi riferimenti di Podemos, Pablo Iglesias e Íñigo Errejón parlavano lunedì di cercare formule per «sopravvivere al parlamento» senza assomigliare ai loro rivali e che il partito d’ora in poi avrà meno «sex appeal». «Dal blitz passeremo alla guerra di posizione», spiegavano. Iu e Podemos devono capire che direzione prendere. Ma fanno capire di non avere fretta, cioè di aver rinunciato all’idea di andare al governo. Almeno per ora.