Per l’ennesima volta il professor Chandra, stimato docente di Cambridge e economista di fama mondiale, ha visto sfumare all’ultimo momento la conquista del Premio Nobel. Per lui, che al lavoro e alla carriera sembra aver sacrificato ogni cosa, a partire dal rapporto con la moglie che lo ha lasciato per un ex hippy californiano e con i tre figli con cui stenta perfino a parlare, questa sconfitta assume i contorni di un trauma. Per riprendersi, e ritrovare il filo di una vita cui gli sembra di assistere da semplice spettatore, intraprenderà un viaggio che lo porta nell’Ovest americano, ad Hong Kong e, nella memoria, nell’India meridionale dove è nato e dove ha scelto lungamente di non fare ritorno. Il «viaggio» che lo scrittore britannico Rajeev Balasubramanyam, autore di una mezza dozzina tra romanzi e racconti celebrati dalla critica anglosassone, fa compiere al protagonista di Il professor Chandra e il segreto della felicità (Sem, pp. 332, euro 19) ha però prima di tutto una valenza interiore: descrive una scoperta di sé che si traduce in uno sguardo rinnovato sul mondo, dove, cominciano a stagliarsi contraddizioni prima invisibili. Psicologiche e spirituali come sociali e culturali.

Il professor Chandra appare inizialmente poco incline all’empatia, eppure il suo procedere come una sorta di «Mr. Magoo» dei sentimenti finisce per conquistare il lettore, rivelando la profondità del suo animo. Cosa accade durante il viaggio nel quale il libro lo accompagna?
Chandra è costretto a guardarsi dentro e a porsi delle domande su come il suo comportamento gli abbia causato molti problemi e lo abbia allontanato dai suoi cari. Per farlo finirà per recarsi all’Istituto di Esalen, nella zona del Big Sur in California, dove dagli anni Sessanta si esplorano attraverso la meditazione le potenzialità latenti nell’uomo e dove ciascuno cerca di raggiungere una maggiore consapevolezza di sé. Ha capito che può cambiare la propria vita solo cambiando se stesso e, allo stesso tempo, proprio lui che ha passato anni sui libri comincia a percepire la propria interiorità come «un oggetto di studio». Il professore si trasforma così in uno studente, anche se non particolarmente brillante, ma questo nuovo atteggiamento produrrà comunque una trasformazione positiva per lui come per gli altri.

Lo scrittore britannico Rajeev Balasubramanyam

Il protagonista ammira Milton Friedman, uno dei teorici del neoliberismo e appare come un «fondamentalista del mercato». Dopo essersi messo in discussione come individuo inizia però a rivedere criticamente anche molte di quelle dottrine.
Penso che gli economisti facciano ipotesi sulla natura umana senza rendersi conto che i filosofi hanno discusso intorno a questi stessi quesiti per millenni. Inoltre, con i loro «modelli» possono finire davvero per imporre alle persone degli stili di comportamento e consumo sbagliati e dannosi. Chandra, come molti economisti, è sprezzante nei confronti delle altre discipline, crede che filosofi, psicologi, antropologi e sociologi non abbiano alcun rigore teorico. Quando comincerà a guardare alla vita come a qualcosa di concreto, cercherà invece di mettersi in ascolto per capire le conseguenze reali di tutto ciò.

[do action=”citazione”]Con i loro «modelli» gli studiosi
di economia possono indurre comportamenti e consumi dannosi.
Il protagonista
se ne rende conto quando inizia
a guardare alla vita diversamente[/do]

 

Sembra un paradosso ma Chandra che è indiano scopre la meditazione negli Stati Uniti, in luoghi come la montagna del Colorado dove sorgono decine tra monasteri tibetani, ashram hindu e centri zen e dove porta la figlia che ha problemi di droga: un luogo che la ragazza definisce «il parco dei divertimenti dei matti».
Chandra è un intellettuale indiano occidentale, razionale, moderno, che evita la superstizione e la religiosità. Perciò ha senso che una tale figura trovi la spiritualità in un luogo diverso da «casa sua». E gli ambienti che frequenta negli Stati Uniti non possono essere liquidati come quelli di persone che vivono tra i privilegi del capitalismo e vogliono solo darsi una patina di spiritualità, ci sono anche molti elementi genuini. Ma c’è anche dell’altro. Chandra ha legato a lungo le sue riflessioni su questi temi al proprio lavoro di economista. Nel libro si riferisce al tasso di crescita dell’India, in passato sempre molto basso, come «il tasso di crescita indù»: la sensazione è che come un bramino abbia visto il peggio della superstizione e del sistema delle caste e abbia deciso che il razionalismo e i mercati sono l’unico antidoto possibile. La sua «tribù» ha vinto e dal 1991 l’India ha liberalizzato la sua economia e oggi è al 100% capitalista. Parallelamente si è assistito all’ascesa del fondamentalismo indù, una forma violenta di fascismo abbracciata dal partito al potere, il Bjp, la cui popolarità è stata letta come il bisogno da parte della classe media in espansione che andava abbracciando il consumismo occidentale, di dimostrare il suo carattere indiano.

Il viaggio del protagonista sembra compiersi «dentro la globalizzazione», mettendo in scena via via l’Hong Kong delle multinazionali, dove però le cameriere sono soprattutto filippine, e l’Ovest americano delle nuove tecnologie in odore di new age, dove i lavori manuali toccano agli ispanici. Dal suo nuovo punto di vista, Chandra coglie il rovescio della medaglia di queste realtà?
Credo proprio di sì. È un economista dello sviluppo e, per dirla con Salman Rushdie, è uno dei «figli della mezzanotte», nato intorno al 1947, data dell’indipendenza indiana. Non è un socialista, è un elitario che crede che solo «gli illuminati» – che per lui sono gli economisti – possiedano le soluzioni ai problemi del mondo e che tutti gli altri debbano solo applicare tali soluzioni. È cresciuto da membro delle classi privilegiate all’interno di un paese disperatamente povero e la sua prima ispirazione era quella di aiutare gli altri, di fare del bene: per lui l’economia rappresentava questo. Forse lo si potrebbe definire come un capitalista con un cuore socialista. Mano a mano che prosegue nella sua esplorazione vedrà con ancora maggiore lucidità le storture del mondo.

[do action=”citazione”]Il colonialismo
ha creato la Gran Bretagna, ma la cultura nazionale
nega perfino
di interrogarsi sulla moralità
del fenomeno. Temo un coltraccolpo
del razzismo dopo le proteste attuali[/do]

 

Lei ha studiato e vissuto in tutto il mondo, ma è nato nel Lancashire da genitori indiani ed è oggi una delle voci riconosciute della narrativa britannica. La riflessione sul multiculturalismo, al centro di feroci polemiche politiche negli ultimi anni, racchiude ancora i termini della condizione che si vive nel Regno Unito?
Sono molto scettico nei confronti della nozione di multiculturalismo. In effetti, si è trattato di una creazione del Partito conservatore della Gran Bretagna che sembrava credere che ogni comunità etnica o religiosa esprimesse la propria cultura ermeticamente sigillata e che avrebbe dovuto essere incoraggiata a rimanere all’interno di questi confini: una visione esplicitamente xenofoba. In realtà, tutti i paesi sono in qualche modo multiculturali e la principale differenza su questo terreno si esprime nel confronto tra le generazioni, tra vecchi e giovani. I politici britannici, tuttavia, hanno usato il riferimento al multiculturalismo per provare a dimostrare che il loro paese non è razzista. Solo che gli inglesi sono in realtà molto razzisti e le risorse pubbliche andrebbero spese per combattere questo fenomeno, invece che per favorire «la separazione» tra le culture con la scusa che qui «il razzismo non esiste»

Anche la Gran Bretagna è stata investita dalle mobilitazioni che hanno fatto seguito alla morte di George Floyd a Minneapolis. Ritiene che il passato coloniale svolga ancora un ruolo attivo nel Paese?
Il colonialismo ha creato la Gran Bretagna moderna, ma il governo di Londra e la cultura nazionale si oppongono a qualsiasi interrogativo sulla moralità di tale fenomeno. Da dove viene la ricchezza del Paese? Da dove viene la rivoluzione industriale? Tutto ha avuto origine con il commercio degli schiavi, con le piantagioni di zucchero e cotone realizzate sui terreni sottratti alle popolazioni indigene, con l’importazione di cibo dall’Irlanda e dall’India che ha causato enormi carestie in quei Paesi, o con la distruzione delle industrie indiane e cinesi attraverso l’imposizione dei dazi e, nel caso della Cina, con la guerra dell’oppio, combattuta in nome del diritto di vendere una droga che creava dipendenza tra la popolazione cinese. Questa lista di crimini coloniali potrebbe continuare all’infinito, ma si preferisce semplicemente rimuovere e negare tutto. O addirittura rovesciare i propri peccati sulle vittime: in psicologia si usa l’acronimo darvo: «nega, attacca, inverti i ruoli tra vittima e oppressore». Anche per questo temo che a queste legittime e necessarie proteste possa far seguito un contraccolpo, negli Stati Uniti come in Europa, e che il razzismo possa addirittura peggiorare. Al riguardo, alcuni giorni sono ottimista, altri no.