Ancora negli anni settanta in piazza Santo Stefano a Bologna, all’altezza del civico n. 15, era individuabile il locale che aveva ospitato per decenni il laboratorio e negozio di stufe, anzi l’antica fumisteria appartenuta alla famiglia dello scrittore poligrafo Giuseppe Raimondi (1898-1985), che ne era stato l’ultimo titolare mantenendo da sempre, in quanto letterato, il ruolo di outsider. A quella stessa altezza cronologica, Raimondi risultava trasferito in via Arienti (nella casa che era stata di un suo grande amico di gioventù, Riccardo Bacchelli) ma restava ben attivo nello studio ricavato in un sottotetto di via Castiglione, tant’è che Mondadori aveva immesso le sue opere negli «Oscar» (una tra le principali, Notizie dall’Emilia, del ’54, era curata da una giovanissima Clelia Martignoni) mentre l’Alma Mater gli aveva appena organizzato all’Archiginnasio una mostra di carteggi, Giuseppe Raimondi fra poeti e pittori (catalogo Edizioni Alfa a cura di Clemente Mazzotta) che testimoniava antichi rapporti epistolari, fra gli altri, con Apollinaire, Tzara, Ungaretti, Rebora, De Pisis, Valéry, Longanesi oltre a quelli che da sempre ed elettivamente figuravano suoi compagni di via, l’intimissimo Bacchelli ma anche Vincenzo Cardarelli, frequentato a Roma intorno al ’20 da segretario di redazione della «Ronda», e il pittore recluso in via Fondazza cui avrebbe dedicato, postuma alla loro amicizia, una memoria imprescindibile, Anni con Giorgio Morandi del 1970.
La mostra del maggio-giugno ’77 (Raimondi era intervenuto alla inaugurazione e chi c’era può ricordarne l’immagine austera, il tratto vibrante) non solo ospitava una ricca disparità di documenti ma riuniva l’intero arco costituzionale della critica, se così si può dire, da Luciano Anceschi e Fausto Curi a Guido Guglielmi, Alfredo Cottignoli, Anna Luce Lenzi fino a una precoce storica dell’arte, una ragazza punk, cui era riservato un atroce destino, Francesca Alinovi. Una simile panoplia di interlocutori, nonché di studiosi rispettivi, sembrava fatta apposta per avallare lo stereotipo che in realtà era un sospetto inveterato nei riguardi di Raimondi, quello di un suo sostanziale eclettismo che lo faceva di continuo oscillare tra l’osservanza tradizionalista (i nomi di Cardarelli, Cecchi e compagnia parlavano da soli) e all’opposto la vague avanguardista dei sodali francesi, perché lo scrittore bolognese, neanche tanto imberbe, aveva firmato su Dada «giovanilmente spericolato e sanculotto», avrebbe detto a suo tempo Gianfranco Contini. E poi c’era l’assortimento della sua personale bibliografia, certo ricca ma così dispari da essere spiazzante nell’intrico di prose d’arte, racconti, saggi, memorie, pastiches narrativi e pseudonimi (fra i quali Galileo, ovvero dell’aria, 1926; Domenico Giordani e Il cartesiano signor Teste, ’28) cui era seguito negli anni trenta un brusco stop e quindi un lungo corrucciato silenzio, un iroso diniego ai tempi del fascismo trionfante e della guerra mondiale, perché Raimondi era rimasto in tutto il figlio di suo padre Torquato, lo stufaio giacobino, e dunque un fiero antifascista.
Solo nel dopoguerra lo scrittore avrebbe dato un baricentro alla sua produzione mostrando una più certa fisionomia con qualcosa tra il memoir e l’autobiografia traslata: Giuseppe in Italia (introduzione di Nicolò Maldina, Pendragon, pp. 213, € 15,00), che oggi torna opportunamente dopo un lungo silenzio editoriale. La formazione di Raimondi avviene nei pochi metri quadri che connettono piazza Stanto Stefano e piazza Maggiore, la scena primaria si svolge nell’officina di suo padre, su un tavolo di risulta dove fare i compiti tra la cenere e il pulviscolo. Operai e lavoranti sono necessariamente i suoi compagni, talune osterie divengono le piccole accademie in cui si sfogano i discorsi e ricorrono i nomi di Malatesta, di Turati e Camillo Prampolini, mentre il clima è ancora quello dell’Assommoir, con le austere barbe dei militanti che alludono all’epopea risorgimentale. È scritto poco oltre il principio di Giuseppe in Italia: «Quando taluno di loro, con impaccio allegro, mi recava un libro in dono, ciò aveva un significato di rivincita su un sogno mancato, e di incitamento alla conquista di un’educazione timidamente politica e di classe. Erano le Vite di Robespierre, di Danton; un romanzo di Hugo; il Ça ira di Carducci, in piccoli libri popolari. La speranza e la fiducia di mio padre si espandevano ai margini della sua bocca grossa, tra la barba folta. La mia educazione d’infanzia ebbe questi testimoni e compagni».
Lo stigma di classe segna per lui una alterità via via più consapevole, dalle aule austere del «Galvani» il ragazzo Giuseppe torna all’officina paterna con un senso di liberazione o meglio di autentica redenzione perché non sa vedere la sua vita se non nudamente, nel possesso del poco essenziale che solo garantisce la dignità. Senza il fumo dell’officina e quei volti adusti non avrebbero senso, perciò, i Rimbaud, i Baudelaire, lo stesso Leopardi, perdutamente amati proprio perché iscritti nella indigenza di un contesto che non li prevedeva. E così altri incontri memorabili che si affacciano, un Dino Campana di pelo fulvo, vociante per via, le lunghe passeggiate con l’amico Bacchelli, borghese elettivamente magnanimo, e quelle rigorosamente silenziose con Morandi in Strada Maggiore. Raimondi si vuole autore impassibile, di fatti, ma in realtà Giuseppe in Italia ne è poverissimo perché nulla o quasi vi si dice per esempio della Grande Guerra, cui lo scrittore partecipa con l’ultima classe di leva, e nulla del fascismo se non nella forma dell’ellisse più gelida. Viceversa prevalgono i dati di atmosfera, oggetti e segni dove si deposita il cosiddetto spirito del tempo, dentro «un museo di ricordi – scrive Maldina nella introduzione – utili a dar valore di realtà, di documento alla narrazione di una parabola biografica che si intende porre come emblematica».
Per parte sua, recensendolo all’impronta sul «Ponte» (testo poi confluito in Altri esercizî, Einaudi 1972), Contini aveva parlato di uno «specchio di Narciso che la mano di un demone cardarelliano e valérista continua a intercalare davanti al suo volto». Nello stile secco, di prosciugata aridità appena scalfita dagli urti emotivi, nella penombra di un luogo fuorivia, privo di qualunque prestigio accademico e sociale, è lì che Raimondi raggiunge finalmente l’equilibrio che lo garantisce da ogni futura oscillazione ed è lì che noi appuriamo finalmente come si tratti non tanto di un autore eclettico o, peggio, di un avanguardista fattosi tradizionalista, quanto di un modernista che sceglie per sé la posizione laterale del testimone. Di un testimone che sembra essere europeo prima che italiano, di un testimone, si aggiunga, dichiaratamente implicato nei fatti e tuttavia, per origine e vocazione, estraneo al contenzioso che nel secolo, a cadenza, si origina da quei fatti medesimi. Lo scrittore bolognese peraltro non ha mai firmato un manifesto in vita sua né aderito ufficialmente a una poetica e forse non è un caso che, ventenne, avesse promosso una rivista dal titolo molto indiziato proprio perché molto equanime, «La Raccolta»: «appartato tra le mura solide della città delle torri, i miei occhi guardavano fin sotto la gabbia della Tour Eiffel», disse quella sera del ’77 inaugurando la mostra dedicatagli all’Archiginnasio.