I primi film dell’Albania comunista si sono visti a Lecce alla fine degli anni ’70 quando non era detto che bussando semplicemente all’ambasciata venisse aperto. E invece nonostante l’isolamento più totale nelle prime edizioni di un festival che si chiamava «Cinema e mezzogiorno d’Europa» l’ambasciata concesse qualche commedia ma anche il drammatico Ballë për ballë di Kujtim Çashku e Piro Milkani(Faccia a faccia, 1979) dove un sottomarino sovietico si trovava senza preavviso nelle acque territoriali albanesi dopo la storica frattura tra i due paesi nel 1961. Il giovane ufficiale sovietico era interpretato da Edmond Budina che è stato quest’anno ospite nell’edizione 19 del «Festival del cinema europeo» ((9-14 aprile) di Lecce diretto da Alberto La Monica (già fissate le date del prossimo anno: 8-13 aprile)) e che ha continuato ogni anno non solo a presentare i nuovi film albanesi, ma anche tramite il Forum di coproduzione mediterranea della Apulia Film commissione favorisce le coproduzioni (oltre al progetto di dotare di tecnologie moderne due sale albanesi).
L’Albania di oggi con la sua forsennata corsa al neoliberalismo in chiave balcanica è raccontata da Edmond Budina in Broken, presentato in anteprima nazionale, (prodotto da ABFilm con l’italiana Revolver e la macedone Ktfilm&media) e che sarà nelle sale a maggio. Terzo film del regista dopo Lettere al vento e Balkan Bazar, racconta la rottura dei costumi e delle tradizioni, delle amicizie e dei rapporti familiari causati dalla rapida trasformazione. È interpretato dallo stesso regista come a incarnare lo spirito indomito di un paese messo a dura prova dal liberismo spietato, da un problematico processo di modernizzazione e dalla speculazione che non guarda in faccia a nessuno. Edmond Budina che ha combattuto per la democrazia e che fin da quando era giovane nel suo paese ha saputo alzare la voce, lo fa ancora oggi che vive in Italia. Il suo film è più di un ammonimento e affronta il tema degli affari che si fanno sui rifiuti tossici: è stato accolto molto bene dal pubblico di Tirana, dice, ma non dai politici che evidentemente «hanno paura di scoperchiare il vaso di Pandora».
In «Broken» uno dei temi centrali è quello dell’inquinamento ambientale, proprio qui a Melendugno è esplosivo il tema della Tap, il gasdotto che passa proprio dal’Albania: quali sono le reazioni nel tuo paese?
Gli albanesi sono contenti, non c’è alcuna contestazione, dicono che porta un po’ di lavoro, hanno espropriato le terre e dato un po’ di soldi ai proprietari e anche loro sono contenti. Il gasdotto passa vicino a Fier verso la zona centrale del paese, le zone turistiche sono piuttosto al sud.
Riguardo invece ai rifiuti tossici di cui parli, la gente è avvertita? si ribella?
Gli stessi che prima contestavano, ora che sono al potere vogliono concedere permessi, ma in un paese dove le regole non vengono rispettate, non c’è possibilità di reale controllo. Proprio quando Broken era nelle sale, in Albania era uscita la notizia di 13 container di rifiuti partiti da Gioia Tauro poi spariti in Albania. Le fonti governative hanno smentito, ma qualcosa di vero ci dovrebbe essere. Nel paese hanno poco rispetto per la natura, hanno tagliato interi boschi, fatto deviare fiumi per utilizzare materiali da costruzione, in mare si trova carburante delle navi, macchine, biciclette, lavatrici. Questo fa pensare che la criminalità lavora.
Ci sono leggi specifiche a proposito?
A dispetto delle leggi nessuno viene condannato, vedi l’enorme cementificazione a Tirana che è diventata una giungla di cemento e inquinamento. Anche se il sindaco ha fatto piantare degli alberi, dovrebbe invece bloccare la cementificazione.
Il tuo film non si riferisce solo all’Albania, parla di problemi che riguardano tutti i paesi.
Gli albanesi hanno fretta di entrare in questa comunità di globalizzazione. Se parli con la gente certi dicono che la mafia albanese fa bene perché investe nel paese. È stata creata una mentalità per cui basta che fai i soldi tutto va bene, a dispetto di quello che prima era considerato morale. Prima la famiglia era molto unita, anche perché li legava la povertà, la repressione. Ora i genitori restano soli e spesso sono mandati negli ospizi.
Degli albanesi che arrivavano in Italia parecchi proseguivano per l’America, per il Canada: questi non hanno portato nel paese un certo tipo di cambiamento nella mentalità?
Pochissimi sono tornati, neanche io che vivo in Italia, ma almeno io cerco di alzare la voce. Quelli che sono all’estero una coscienza in più ce l’hanno, come certi nostri cantati famosi in Germania o in Svizzera che cantano contro l’inquinamento.
Tu hai alzato sempre la voce anche in momenti per niente facili, come in un memorabile spettacolo su Kadaré
Ho messo in scena nel 1990 un adattamento da «La notte della luna», uno spettacolo innovativo contro il regime che ha avuto molto successo di pubblico. Dopo quello spettacolo sono iniziate le rivolte degli studenti. Loro mi hanno chiamato, mi volevano con loro per andare da Alia insieme a tanti altri intellettuali. Mi hanno detto: «Vogliamo che tu venga con noi, ci hai ispirato per fare una rivolta». Sono rimasto molto colpito, era un momento di grande emotività. Da lì è nata la mia richiesta di pluralismo democratico.
Che storia raccontava lo spettacolo per avere un effetto così dirompente?
È la storia di una ragazza a cui viene chiesto per un motivo da nulla un certificato di verginità e al centro dello spettacolo c’erano tanti riferimenti al regime, i manganelli e perfino un’attrice che imitava la voce di Enver Hoxha, una cosa impensabile. La gente in sala alzava le due dita facendo il segno di Vittoria. per me Kadare è la voce che ci ha emancipato, che ci ha dato coraggio. Non era considerato un dissidente, ma in realtà lo era, la polizia segreta lo controllava ed ora ci sono i documenti che lo provano. Avevo 15 anni quando è uscito Il Grande inverno, ricordo che ho sottolineato in rosso questa frase: «La lotta più dura del socialismo è tra quelli che sono capaci e quelli che sono incapaci, ma quelli che si ritirano prima sono quelli capaci» lasciando intendere che restano a governare solo gli incapaci.
Prima di questo celebre spettacolo hai messo in scena moltissimi spettacoli, firmati da drammaturghi albanesi. Di cosa parlavano?
Erano spettacoli realistici secondo i dettami dell’epoca, ma con Kadare ho fatto qualcosa di diverso da tutto quello che c’era prima per quanti riguarda le interpretazioni, le scene, le tematiche a cominciare dalla verginità o dalla repressione del potere che nessuno prima aveva toccato. Prima si metteva in scena anche Schiller o Shakeaspeare…
Un maestro dei conflitti con il potere...
Ma mettevamo in scena lo Shakespeare che non toccava il potere, noi facevamo: La Dodicesima notte, La bisbetica domata. Non era male neanche mettere in scena pièce di autori albanesi, li spingeva a scrivere anche se all’interno della cornice ideologica.
In quanto a polemiche ne hai sollevate perfino con la Chiesa ortodossa al tempo di «Balkan Bazar» dove tu interpretavi un prete connivente con il taffico di salme
Mi sembra che furono 147 i preti che inviarono una lettera di protesta al primo ministro e anche al Mibact. Proprio per questo motivo la gente è corsa in massa a vedere il film che era una commedia balcanica e lo passano spesso in televisione
In quel caso si trattava dei confini balcanici, in questo caso del traffico di rifiuti tossici di problematiche che attraversano vari stati fino alla Romania, all’Ungheria
Cerco di fare film dallo sguardo più universale che toccano problemi non solo albanesi
Raccontami la storia della fondazione del partito democratico
Io ero un rappresentante dei professori universitari. Quando siamo tornati dall’incontro con Alia abbiamo fondato il partito democratico contro il partito che era intoccabile e a cui si sono poi aggiunti altri intellettuali. Mi sono accorto immediatamente come tutti cercavano a quel punto di afferrare un pezzo di potere, di trovare il «posto». Ho in mente una scena indimenticabile, quella della telefonata che doveva arrivare dalla Voice of America e la corsa di tutti verso quel telefono nero. Rispondere per primi era come affermare il potere. E Berisha era sempre quello che rispondeva per primo. Prima o poi ne farò un film a partire proprio da quella scena.
In «Broken» il tuo personaggio rappresenta una immagine di uomo del passato vecchio stampo con una dirittura morale.
Sono cresciuto in una famiglia dove mio nonno partigiano era diventato responsabile della fabbrica del pane e dove gli operai per pranzo si portavano formaggio e pomodori da casa e prendevano il pane dalla fabbrica, mentre mio nonno se lo portava da casa perché riteneva un furto allo stato prenderlo dalla fabbrica. Questo tipo di educazione mi è rimasto impresso, quello del comunista sognatore che ha una moralità.
Ricordo che sono andato a trovare un mio amico attore iscritto come me al partito comunista e gli ho detto che avrei dovuto dimettermi perché ormai appartenevo al partito democratico. E lui non mi ha rivolto più la parola perché avevo tradito i nostri ideali, ma dopo gli anni ’90 ha ricominciato a parlarmi. Lui però è rimasto con quegli ideali. Non so se ne sono rimasti tanti, ma ci sono.
Come sei arrivato in Italia?
Negli anni 40 un ragazzo albanese venne a Roma, conobbe una ragazza e si sposarono, nacque una figlia e andarono in Albania per conoscere la famiglia. Quando arrivano i confini si chiusero all’improvviso, la moglie avrebbe potutro tornare in Italia ma il marito e la figlia no, così anche lei è stata costretta a restare. Una delle figlie di questa coppia è diventata mia moglie (la suocera, racconta, era la voce italiana di radio Albania che si sentiva tutte le sere anche dal Salento. ndr). Nel 1990 mia moglie è venuta in Italia con le figlie e anche io sono arrivato otto mesi dopo, grazie a un accordo del governo che favoriva gli italiani rimasti bloccati in Albania: ci hanno lasciato a Bassano del Grappa senza casa, senza nulla, solo con un piccolo sussidio. Per mantenere la famiglia ho fatto l’operaio in una fabbrica di caldaie.
A Bassano c’era Olmi, ma anche nel suo laboratorio ognuno doveva badare a se stesso
Infatti mi avevano lasciato lì perché ero un regista e c’era Olmi. Io ho partecipato a Ipotesi cinema come manovale, attrezzista, aiuto regista con Toni De Gregorio. Da lì è nato il film Lettere al vento. Olmi ci disse: raccontatemi le vostre storie. La stessa notte ho scritto il soggetto, l’ho anche presentato in Albania pensando che lo avrebbero accolto perché lì ero molto conosciuto, ma vinsero altri tre. L’ho presentato in Italia, ma non ci speravo perché al ministero c’erano altre 13 candidature, invece è stato accettato nel 2000 e nel 2003 è uscito. Io sono uno tosto, se devo fare qualcosa la faccio. Ho provato anche con il teatro ma era più difficile forse per via della lingua e per il fatto che non potevo allontanarmi dalla fabbrica. Lo spettacolo Fantaghirò ha girato per tutta l’Italia.
Una cosa che colpisce nel film è la grande abbondanza di armi a disposizione di tutti
Nel ’97 è scoppiata la rivolta contro le finanziarie, è stata come una guerra civile, hanno aperto i magazzini delle armi, sono stati rubati kalashnikov, pistole, bombe, addirittura i carri armati, perfino aerei trascinati fuori con le corde. Ora c’è un’infinità di armi che circolano, ancora oggi le trovi facilmente. Oltre al grande commercio di armi che c’è stato in Albania.
In questo vi siete allineati velocemente agli Usa
Qualcosa di diverso c’è. Oggi ci sono attentati con il tritolo, lo compri con il cellulare. Sono attentati mafiosi, vendette.
La legge della montagna?
Piuttosto la sua trasformazione, una complicatissima rete di regole applicate alla vita moderna.