«Difensivi, proporzionati e una risposta diretta alla minaccia posta dai gruppi armati pro-Iran che continuano ad attaccare le basi che ospitano le basi della Coalizione (a guida Usa». Così il Pentagono ha spiegato i raid aerei compiuti l’altra notte nelle regioni centro meridionali irachene di Karbala, Babel e Wasit contro le Kataib Hezbollah parte delle filo-iraniane Unità di mobilitazione popolare (Pmu). E ha avvertito che questi gruppi «devono interrompere i loro attacchi altrimenti ne subiranno le conseguenze». Washington perciò afferma di aver attuato una ritorsione per l’attacco con razzi Katyusha dell’11 marzo contro Camp Taji, a nord di Baghdad, in cui sono rimasti uccisi due militari statunitensi e una soldatessa britannica.

Il generale Kenneth McKenzie, alla guida del comando centrale Usa nel Golfo, ha inoltre annunciato l’attivazione, entro «pochi giorni», dei sistemi antimissili Patriot. Non servono a intercettare i Katyusha ma, ha spiegato McKenzie, sono utili «contro il tipo di attacco perpetrato dall’Iran all’inizio di gennaio». Gli Usa, ne consegue, si preparano a una nuova escalation con Tehran dopo quella seguita all’assassinio del generale iraniano Qassem Soleimani ordinato da Donald Trump all’inizio dell’anno. L’Iran in quella occasione reagì con il lancio di missili balistici contro la base di Ayn al-Asad in Iraq senza fare morti tra i militari americani.

L’accaduto ha scatenato in Iraq – nel pieno di una complessa crisi politica e paralizzato da mesi di massicce proteste popolari contro corruzione, disoccupazione e settarismo – una nuova ondata di polemiche contro la presenza militare degli Stati uniti. Lo sdegno è ancora più forte perché gli aerei Usa hanno ucciso sei persone non coinvolte (pare) in attività paramilitari: tre soldati, due poliziotti e un operaio. Il raid ha preso di mira in particolare la 19esima divisione dell’Esercito iracheno, il quartier generale del 46esima divisione delle Pmu e il terzo reggimento di polizia nella provincia di Baqbele. Colpite le aree di Jurf al Nasr, Al Saeedat, Behbehani, l’ex impianto di produzione militare di Ashtar e l’aeroporto in costruzione a Karbala.

Il ministero degli esteri iracheno ieri ha convocato gli ambasciatori statunitense e britannico. E ha diffuso un comunicato di protesta: «Il bombardamento di infrastrutture civili e militari da parte degli Stati Uniti mina gli sforzi contro il terrorismo e viola l’accordo in essere tra l’Iraq e la Coalizione internazionale contro lo Stato islamico». Una denuncia è giunta anche dall’ufficio dell’ayatollah Ali Sistani, la più importante autorità religiosa sciita.  Un noto deputato Naim al Aboudi, vicino alle Pmu, ha commentato su Twitter che «l’America può uccidere persone innocenti, ma non sarà in grado di rimanere su questa terra a lungo e si coprirà di vergogna». E da Tehran il portavoce del ministero degli esteri iraniano, Abbas Mousavi, rivolgendosi a Trump lo ha caldamente invitato a ritirare le forze Usa dall’Iraq, lasciando intendere che, in caso contrario. rimarranno un obiettivo.

In Iraq sono schierati quasi 6.000 soldati statunitensi, insieme a circa 4.000 di altre nazioni occidentali, tra cui 1.100 italiani e 500 soldati britannici. All’indomani dell’uccisione di Soleimani il parlamento di Baghdad aveva approvato una proposta – non vincolante – per l’espulsione di tutte le truppe straniere presenti sul territorio. Il tutto mentre la guerra del barile tra Russia e Arabia Saudita ha fatto crollare il prezzo del greggio con grave danno per le entrate di valuta pregiata nella casse di Baghdad.